Monza e un museo Leonardo Spreafico

Una mostra a Rapallo celebra Leonardo Spreafico. E potrebbe esserci anche lui tra i protagonisti dei nuovi Musei civici di Monza, alla Casa degli Umiliati, quando saranno aperti. La storia di un protagonista dell’arte del Novecento.
Leonardo Spreafico, Autoritratto, 1952

Non sembra che le attese questa volta possano essere tradite, e allora meglio insistere: il 2014 sarà l’anno in cui Monza avrà di nuovo un museo per le sue collezioni d’arte, alla Casa degli Umiliati. E lo avrà – dicunt – entro poche settimane dall’inizio del nuovo anno. Il fatto è: avrà molto da celebrare, volendo. Potrà farlo per il suo più importante artista degli ultimi due secoli, Mosè Bianchi, di cui ricorrono a marzo i centodieci anni della scomparsa. E potrà farlo con i figli minori, come Niccolò Segota, scomparso trent’anni fa.

Sia pure, d’accordo, sono tutti anniversari di morte, come lo sarà quello di Leonardo Spreafico: ma sono occasioni da non perdere. Spreafico, appunto: lui c’è nelle collezioni dei musei civici di Monza ed è uno dei protagonisti dell’arte, per la città, del secolo scorso. Città che infatti tra dicembre e gennaio di un anno fa gli aveva dedicato una retrospettiva alla galleria civica. È mancato improvvisamente a dicembre del 1974 e proprio in queste settimane una mostra a Rapallo celebra la sua arte, all’Antico Castello sul Mare fino al 12 gennaio, con un catalogo in cui compare una prefazione del monzese Pier Franco Bertazzini, chiamato a raccontare un amico.

“Un artista monzese che ha incantato il mondo” è il titolo dell’intervento di Bertazzini per la ricca antologica che si intitola “Colore nel tempo”, capace di ripercorrere quasi vent’anni di evoluzione della poetica dell’artista. «Conobbi Spreafico nel 1939 – scrive Bertazzini – a Lissone, in una personale offertagli dalla locale Famiglia artistica. Poi le occasioni d’incontro nelle gallerie e nelle manifestazioni culturali si infittirono negli anni. Si finì col conoscersi a fondo e si crearono vincoli di affettuosa cordialità. Era un buono e un generoso, severo con se stesso, comprensivo con gli altri; colto, signorile e distinto».

Due anni prima, ricorda il monzese, Spreafico aveva collaborato con Mario Sironi all’allestimento del padiglione italiano all’Esposizione universale di Parigi, portando l’opera “Mezza figura”, premiata con la medaglia d’oro, che appartiene a una collezione privata. Fa parte della retrospettiva il celebre autoritratto del 1951, a sua volta pezzo di una collezione privata (mentre un altro autoritratto è nelle collezioni civiche monzesi), un olio su tela che Spreafico realizzò quando già il suo nome era radicato nel panorama artistico italiano: oltre a Parigi si era già lasciato alle spalle la Quadriennale di Monza, mostre a New York, la Biennale di Venezia, premi nazionali e un soggiorno a Barcellona.

Di lì a due anni avrebbe iniziato a insegnare alla scuola d’arte del Castello Sforzesco di Milano, ma lui si era formato prima in città, all’Isia, e poi a Brera, aprendo in seguito uno studio in corso Garibaldi a Milano ed entrando in contatto con il gruppo di artisti che da quella strada cercava di annusare un po’ di Europa contro l’autarchia di molta arte italiana, insieme a Broggini, Nivola, Pittino, Afro e Musso. «Spreafico sembrava opporre al Novecento pneumatico e bamboleggiante un racconto pittorico in movimento e in contraddizione con se stesso – ne avrebbe scritto il poeta Alfonso Gatto nel 1956, oggi riportato sul sito leonardospreafico.com – la cui aneddotica figurativa era insistentemente fissa rispetto alla dissoluta e intensa scioltezza che l’artista ne tentava con la sua stessa rapidità di tappezzare di colori la tela, d’accendere il colore dall’interno, di sfumarlo, di schiarirlo, d’avvamparlo. Una fucina secentesca la sua, ma vi bruciavano luci e fumi impressionisti, tra baleni di eloquenza liberty».

Di tutta quell’avventura artistica che pochi mesi prima della morte improvvisa l’aveva portato in Olanda, per guardare da vicino come pennellava Rembrandt, e che luci avesse, i primi passi erano stati mossi bambino al parco di Monza, tramandano le cronache: lì incontrò Ambrogio Alciati, che prima di diventare professore a Brera aveva insegnato all’Isia e sarebbe stato suo docente. In mezzo ai sentieri del parco correva il dodicenne Leonardo Spreafico e là dipingeva Alciati, come avrebbe poi fatto il monzese: un paesaggio che ben conoscono i Musei civici, come quel “Parco di Monza” che fa parte delle collezioni.

«Potrei prendere come capostipite Cassinari o anche Morlotti. Ebbene, perché non vedere Spreafico in questo corso maggiore dell’arte lombarda che dai Tosi, dai Gola, dai Mosè Bianchi è discesa prima ai chiaristi e poi a Cassinari e Morlotti?» scriveva Raffaele De Grada nel 1973, a corredo di una cartella di opere del monzese pubblicata dalle edizioni d’arte Ponterosso di Milano.

Perché, aggiungeva, «Spreafico mantiene una bellissima ricchezza di colori, una sognante allegoria di giardini, di sontuosità ambite e, una volta godute, indimenticabili. I quadri affocati, pieni di verve, che qui si riproducono, se vengono considerati nel contesto di una produzione in cui Spreafico è anche un ottimo pittore di figura, ci danno la giusta dimensione di un’artista lombardo sì, ma che ha tutte le condizioni per essere chiamato a rappresentare in tutta la sua importanza il corso maggiore dell’arte italiana».