Monza – Più di due milioni di lettori sono la prova provata che di storia e di storie, la Brianza, ne ha da raccontare. Che poi non sia il campanile vistalambro sopra Teodolinda ma “Una finestra vistalago”, be’, poco importa: è Brianza, quel po’ di Lombardia che parla una lingua simile e che per abitudini, sguardi, lingua e racconti, un po’ si assomiglia. Ne ha fatto racconto, Andrea Vitali, di quell’epica di terra brianzola, e ne ha fatto fortuna. E’ per questo che l’Associazione mazziniana ha deciso di premiarlo per “Storia e storie della Brianza”, il concorso alla quinta edizione che, per il 2011, ha deciso di non preoccuparsi delle promesse per occuparsi delle affermazioni. Ecco, Vitali, un’affermazione. Campione di ventinove libri pubblicati in ventuno anni e una vena aurea che sembra inesauribile. Sabato sarà a Monza, per ritirare il premio e parlare di editoria. Intanto racconta. Anche di sé.
Ma la Brianza che storia è?
Una storia periferica, per quanto mi riguarda, ma in senso buono: essere periferici non vuol dire essere minori. Per me è sempre stato un territorio altro, l’area monzese. L’ho scoperta poco a poco, negli incontri, nelle serate con i lettori, trovando qualcosa di differente sotto la vernice di una terra dedita esclusivamente al lavoro. Lì ci sono in realtà paesaggi incredibili.
Qualcosa avrà pur incantanto Stendhal e gli inglesi, due secoli fa.
Appunto, i grandi viaggiatori: loro avevano trovato questo.
I viaggiatori allora e i suoi racconti oggi, che parlano di solito di almeno un secolo fa. Serve la distanza per raccontare, una distanza di tempo o di spazio?
Senza dubbio, la distanza è necessaria, lo è sicuramente per me. E non solo quella temporale, spesso anche quella geografica. D’altra parte il mio paese dell’infanzia è comunque distante, i luoghi che racconto non esistono più: sono realtà che non ho mai conosciuto. Per raccontare, per entrare in una realtà romanzata, serve la distanza. Altrimenti sarebbe soltanto cronaca.
Ma la Brianza grande ha un suo carattere, una sua voce?
Almeno un carattere unificante lo ha, ed è la sua lingua. Certo non e? mai identica, gli stessi dialetti hanno infinite varianti e io che sono di Bellano non conosco parole dialettali di Varenna, che sta a quattro chilometri. Eppure è proprio la lingua la voce che unifica la Brianza, che descrive la sua storia, magari una storia fatta soprattutto di lavoro, ma anche di componenti sociali importanti. La lingua è la storia di un territorio. E non esiste un territorio senza storia.
E di storie, anche tante, data la quantità dei suoi romanzi. Una vena inesauribile?
In realtà ho avuto un periodo di difficoltà, che poi ho ritrovato nei diari di Simenon quando scrive che gli capitava di alzarsi la mattina e avere la nausea davanti alla pagina. Ma è una nausea dovuta alla quantità, alle storie che ti arrivano o che immagini e che vorresti raccontare. E’ come con le ciliegie, una dietro l’altra.
E poi?
E poi ho trovato di nuovo l’equilibrio e ora sto scrivendo un romanzo a due storie, due vicende indipendenti che non si incontrano mai e che tuttavia si danno forza l’una con l’altra, come per il principio dei vasi comunicanti.
Intanto, nuovi libri.
Uno in primavera, ponderoso, e uno in libreria giovedì prossimo. E’ “Zia Antonia sapeva di menta”, un racconto del 2001 che ho rivisto, riverniciato, sistemato: affronta il mondo delle case di riposo. Poi, nessuna pressione. Avrò tutto il tempo di lavorare alle prossime storie.
Massimiliano Rossin