«Tanta gente non l’ho vista mai ai miei incontri». Mentre la Brianza è lì, certo numerosissima, pronta ad accogliere e ascoltare il medico di Lampedusa, lui spiazza tutti con una frase che dà la misura della generosità e del senso di accoglienza di un uomo che da decenni dedica la professione, e la vita, ai migranti in fuga da guerre e povertà estrema. Pietro Bartolo è così: il primo pensiero è sempre per chi ha davanti agli occhi. Non potrebbe essere altrimenti per chi, ogni giorno, soccorre tanta gente, senza sosta. Persone, ancor prima che migranti, profughi, richiedenti asilo ci ricorda nel suo tour in Brianza (Seveso, Solaro, Seregno, Monza), organizzato dall’associazione “Senza Confini” di Seveso, con il coinvolgimento di tanti altri enti e su sollecitazione di Rti Bonvena, la rete che si occupa dell’accoglienza sul territorio.
Nella terra, nell’isola di Bartolo, prima frontiera umanitaria dell’emergenza profughi, le barriere non esistono, infrante da quel mare che porta la disperazione nei barconi. E lui non usa alcun tipo di filtro, di barriera, neppure nel raccontare, a chi ha di fronte, ciò che accade ogni giorno a Lampedusa. Deve essere così: non nascondere alcun sentimento, alcuna emozione, non censurare alcuna immagine. È questo l’unico modo per dare l’idea, se ancora fosse necessario, della tragedia umanitaria che si consuma in mare. Da 25 anni. «Sì – spiega Bartolo, – Lampedusa accoglie i migranti da 25 anni, senza sosta. Perché lo facciamo? Perché gli isolani sono gente di mare e accolgono tutto quello che il mare porta».
Ma non può bastare questo spirito a spiegare il grande cuore di Lampedusa. C’è di più: c’è un’isola che non è tale ma è terra ferma, fermissima, nel comprendere che solo la disperazione può spingere ad affrontare un viaggio così, carico di sofferenze e pericoli. Bartolo racconta di 300mila persone visitate, di centinaia di ispezioni cadaveriche effettuate, di atrocità viste sulla pelle dei migranti, di gommoni appena arrivati con donne partorienti alle quali ha legato in emergenza il cordone ombelicale con il laccio delle sue scarpe, di amici pescatori che hanno smesso di esserlo dopo aver visto morire tante persone in mare senza poterle aiutare tutte. «Arrivano persone meravigliose, che hanno impiegato anni per giungere in Italia. Che senso ha distinguere tra chi fugge dalla guerra e chi dalla fame? Non si muore anche di fame? – interroga il medico divenuto proprio con i lampedusani protagonista di “Fuocoammare”, il docufilm di Gianfranco Rosi vincitore dell’Orso d’Oro al Festival del cinema di Berlino. «Un film che è divenuto ciò che desideravo: raccontare a tutto il mondo ciò che accade a Lampedusa, per scuotere tutti». «Dopo viaggi nel deserto, violenze, torture, – racconta ancora – questa gente arriva da noi e ha ancora il coraggio di sorridere. Questo lo si deve al senso di accoglienza di noi italiani».
E le immagini che si susseguono tolgono il fiato. «Mi ha stravolto la vita – confessa il medico – salire su un barcone per le ispezioni mediche di rito, scendere nella stiva, completamente al buio, e accorgermi di avere sotto i piedi i corpi di 25 ragazzi. Sono morti asfissiati, presi a bastonate e chiusi lì dai loro aguzzini, solo perché volevano salire per respirare un po’: non avevano più le unghie, nel disperato tentativo di cercare di uscire».
Immagini come questa tornano nei suoi sogni, ammette Bartolo. Che non vuole però arrendersi all’orrore. E continua a raccontare della barca di un amico giunta al porto con cadaveri recuperati in mare: «Durante le ispezioni mi accorgo che una ragazza ha ancora un flebile battito. Quella ragazza è Kebrat. Si salvata e oggi vive in Svezia. È appena tornata a Lampedusa a trovarmi e aspetta un bimbo». E nel raccontare che Kebrat gli ha chiesto di fare da padrino al suo bimbo, Bartolo si commuove. C’è anche una giovane africana che a Palermo ha dato alla luce il piccolo atteso durante quel viaggio nell’inferno e lo ha chiamato Pietro.
«Sono queste le cose che mi fanno guardare avanti, in mezzo a tanto dolore» ammette il medico che, mentre mostra immagini e video di sbarchi, di vedette della Guardia costiera che portano all’isola ormai solo cadaveri, racconta delle enormi e dolorosissime ferite provocate dalla nafta dei barconi sulla pelle di tanti migranti. Ustioni chimiche da carburante, indelebili. Ma almeno la vita è salva. «Continuare a raccontare tutto ciò è la chiave giusta per cercare di convincere anche chi ha pregiudizi che non è possibile non aiutare queste persone- rimarca, mostrando altre foto di soccorsi. Mostrando il film della sua vita.