Monza – C’era una volta un corniciaio. E questa storia inizia come una favola per quel tanto di epico e di quasi fantastico che i vecchi racconti si portano dietro, così come le mani sapienti di un artigiano. Il corniciaio lo chiamavano tutti “Masama” e quel nomignolo era la parte rimasta di “ma sa ciama” – come si chiama – la domanda che lui rivolgeva diritto e diretto a chiunque si presentasse nel laboratorio. E loro, gli artisti, a turno rispondevano. Lucio Fontana. Piero Manzoni. Piero Dorazio. Nanni Valentini. “Masama” all’anagrafe Luigi Crippa e parlava solo brianzolo.
Eppure le sue mani sapevano fare quello che gli artisti volevano e chiedevano: le cornici migliori. Lì, attorno al suo laboratorio di Arcore, si era creato un cenacolo di artisti come forse quel pezzo di Brianza non ha mai più visto. Nanni Valentini era uno di loro ed era arrivato ad Arcore negli anni Sessanta. Ma non era stato incantato dalle sirene di Masama. Era stato il metano a convincerlo, perché allora non era così facile da trovare nelle case. Per lui, però, era indispensabile: doveva cuocere, cuocere a temperature superiori a mille gradi, nessuna alternativa. E allora Arcore. Con le Marche, Parigi, Bologna e le visioni di Fontana sulle spalle.
Sono storie di creta, di tela e carta quelle che Nanni Valentini ha raccontato per oltre tre decenni. Tanto è durata la sua parabola artistica, dalla bottega di Bruno Baratti a Pesaro, era il 1952, agli anni di insegnamento con gli allievi dell’istituto d’arte di Monza. In mezzo c’è la ricerca continua di un legame con la terra e i suoi elementi, tanto da farne cifra stilistica e strumento di indagine privilegiato delle sue opere. A quest’artista legato all’antico saper fare la Leo galleries di via De Gradi dedica una serata tributo, giovedì 3 maggio alle 21. A raccontare l’uomo e l’artista Valentini saranno Sergio Orlando Riva, direttore dell’Archivio Valentini di Arcore e la figlia Tiziana.
«Mi piace manipolare la terra, vedere attraverso la tela, bagnare di colore le cose – diceva ai suoi allievi -. Cerco di capire cosa c’è nell’interspazio tra il visibile e il tattile. Forse un desiderio di rendere fluido ciò che è cristallizzato». Nato a Sant’Angelo in Vado, in provincia di Pesaro, nel 1932, Giovanni Battista Valentini, detto Nanni, iniziò a innamorarsi dell’arte sul finire della Seconda guerra. Nel 1945 frequenta la Scuola d’arte per decorazioni in ceramica di Pesaro e quattro anni dopo si iscrive all’Istituto d’arte di Faenza. Iniziano i viaggi, a Bologna, all’accademia di belle arti e poi Parigi, dove incontra Burri e Bissier e a Roma fino ad arrivare nella Milano dei fratelli Pomodoro e Roberto Senesi. È di quegli anni la scoperta del grès e il progressivo abbandono del lavoro pittorico.
«A casa Pomodoro ci andava da invitato perché lì c’era una corte importante – racconta Sergio Riva – c’erano i collegamenti con il mondo dell’arte e con i collezionisti, con le gallerie, il mondo dell’alta finanza e personalità dello spettacolo. Decise allora di fermarsi a Milano», dove cambiò tre o quattro studi («non aveva mai soldi», come molti degli artisti dell’epoca), prima di spostarsi definitivamente in Brianza: alla fine per vivere aveva deciso di insegnare, prima a Cantù, poi a Monza dal 1970. «Tra il 1958 e il ’62 faceva fatica a vendere in Italia, ma all’estero era già richiesto. D’altra parte non ha mai seguito strategie mercantili ». E non accettò mai, sottolinea Riva, di perpetuare una scelta vincente pur di accontentare il mercato, più che frequente oggi: «Cambiava continuamente. Come dopo la mostra del 1967 all’Annunciata. Un successo, per la critica. Ma lui non era contento, e si metteva a inseguire altri percorsi, altri temi».
«Con Lucio Fontana come riferimento assoluto tra molti altri, e comunque legato all’artigianalità antica della provincia marchigiana d’origine, Nanni Valentini affonda le radici della sua ispirazione nella mitologia classica e nell’antropologia del sacro – spiega Flavia Dolcini, della Leo galleries -. Tanto potente è ancora oggi l’impatto visivo delle sue creazioni, quanto caparbio è stato in passato il suo isolamento dalle consuetudini e dalle mode». Una vita che si è prematuramente spenta nel 1985, per un banale shock anafilattico, ma che ha saputo regalare con generosità, «donando all’arte italiana del Novecento una delle pagine più complesse e significative», continua Dolcini. Un incontro, quello proposto per questa sera dalla galleria, nato con l’idea di conoscere e riscoprire un artista colto e raffinato, amato dai critici e dagli allievi, attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, «per offrirci una chiave di lettura dell’evoluzione del suo fare, della sua disciplina e delle sue divagazioni».
Sarah Valtolina
Massimiliano Rossin