Monza, quando la piazza cambiòIl monumento ai caduti ha 80 anni

Mercoledì, 31 ottobre, saranno passati ottant'anni dal giorno in cui venne inaugurato il monumento ai caduti di piazza Trento e Trieste a Monza, realizzato da Enrico Pancera. Erano stati necessari dodici anni e il raddoppio dei costi previsti. Poi, per battezzarlo, Benito Mussolini. Ecco la sua storia.
Monza, quando la piazza cambiòIl monumento ai caduti ha 80 anni

Monza – Quel giorno dopo dodici anni di attesa c’era una folla che sciamava da una parte all’altra della piazza. Erano passati quindici anni dalla fine della guerra che allora chiamavano d’indipendenza. E per i successivi decenni quel risultato sarebbe stato soprattutto ingombrante, retorico, quasi un fastidio. Eppure: quasi un secolo dopo, il trionfo italiano rappresentato da Enrico Pancera forse ha bisogno di essere raccontato per quello che è, un capolavoro plastico che sfida gli anni al di là di qualsiasi discussione ideologica e su quale sia il suo migliore collocamento. Il monumento ai caduti di piazza Trento e Trieste compie ottant’anni.

Lo fa mercoledì, il 31 ottobre, inaugurato in quel 1932 in cui Benito Mussolini, ancora lontano dall’avere sistemato un paese in coda per mangiare del pane, si era preso la briga di venire a Monza per affacciarsi al balcone del municipio. Non è la sua storia, questa, non è la storia di un monumento confuso con il monumentalismo fascista. È la storia di Enrico Pancera, scultore, e di un concorso vinto. Di una città che aveva deciso che sarebbe servito un tributo all’Italia e a chi era morto per lei nella Grande guerra. E per questo aveva deciso di mettersi le mani in tasca e nei cassetti, per tirar fuori soldi e rame.

Agosto 1920: due anni dopo la fine del massacro in trincea, il sangue ancora fresco negli occhi dei tanti – troppi, tutti – che avevano perso qualcuno per un’idea di patria forse ancora e comunque vaga. Chi c’era decise che serviva un monumento. Scartando l’idea di qualche lapide artistica sotto l’arengario, di una casa degli studi, di uno speciale padiglione in ospedale. Cose più pratiche, forse, ma quella volta no: vinse l’idea di qualcosa che resta, e infatti sta ancora lì, piantato nel cuore di Monza, con una tromba che sfida il cielo. Ma non fu facile, anzi: lungo e problematico. Qualcosa che oggi – tre anni per la scelta dell’opera, altri nove per realizzarla, il raddoppio dei costi – suonerebbe come uno scandalo. Lo fu allora solo in parte, perché in fondo (così raccontano le cronache) il sentimento diffuso per un doveroso tributo ai morti prevalse. Eppure. Come racconta “Il memoriale ai caduti di Monza”, pubblicato nel 2009 per conto del Comune, il rapporto tra città, commissione per il monumento (di cui faceva parte addirittura Adolfo Wildt) e artista fu quantomeno in salita. Con Pancera presto a chiedere proroghe e il Comune indulgente nel concederle, per quasi un decennio, senza escludere il fatto che quando finalmente si trattò di scegliere la fonderia per i bronzi, l’artista spinse per una società amica che pure aveva presentato un preventivo più alto. Mentre il Comune, con saggia parsimonia brianzola, e sostenuto dalla commissione di esperti, optò per il più economico.

La più conveniente era la FonderiaMenescardi Austoni e Figini (440mila lire), la più cara (e cara a Pancera) la fonderia Battaglia Pogliani Frigerio Vecchi, che poi vista la mal parata, e inteso che i favori dell’artista non sarebbero bastati, ridusse sistematicamente le pretese fino a sfiorare quelle dei concorrenti vincitori, da 570 a 460mila lire. Era ormai il 1929: ne erano passi nove, di anni, da quando la città aveva deciso di regalarsi quel monumento, da 570mila lire a spesa era passata a 1.004.490 lire e molti monzesi, rispondendo all’appello del municipio, avevano deciso di metterci le stoviglie in rame per 120 quintali.

Insomma: lo volevano vedere finito, quel pezzo di marmo e bronzo. E così fu: il 31 ottobre del 1932, tra pochi giorni, ottant’anni fa, in centinaia si presentarono in piazza per vedere il telo scoperchiare il monumento. Stavano cambiando la città e la sua piazza, una fisionomia che da allora si è presa in più solo l’ingombrante presenza del palazzo dell’ex Upim. E a battezzare il tributo, Mussolini: dieci anni dopo la marcia su Roma, undici prima della Repubblica di Salò, nel guado di un’Italia che si immischiava in uno dei suoi ventenni. Ma allora come ora servivano altri occhi, sgombri: per guardare un monumento che è prima di tutto il capolavoro di uno scultore.
Massimiliano Rossin