Monza – Ma l’abito, il monaco, lo fa oppure no? Il senso comune direbbe, insieme con la versione canonica del motto, che quel che l’apparenza imbandisce per i nostri occhi e per gli altri nostri sensi non sempre rivela come le cose stanno davvero. Il più delle volte, anzi, le abbellisce. Insomma, non c’è da fidarsi. La questione però, guardata più in profondità come accade quando si fa filosofia, non è così semplice e non sta solo così. E, a guardare proprio bene, non sta così neppure per il senso comune, anche se “lui”, propriamente, non lo “sa”. Di che si discute? Di realtà e di apparenza. Strettamente correlate fin dagli albori della filosofia occidentale. L’una non sta senza l’altra, per contrapposizione o vicinanza, o addirittura coincidenza, che sia.
Nell’edizione 2013 (leggi il programma), Abitatori del tempo ancora una volta punta l’attenzione su un tema fondante della storia del pensiero, pronto a essere declinato in tutte le sue varianti dai filosofi che si succederanno sul palco della rassegna. Che è realtà? E cosa l’apparenza? Come si può riconoscerle e distinguerle? E si deve poi davvero distinguerle, è utile farlo e farlo sempre? Interrogativi che scivolano dal piano ontologico a quello logico e poi morale: dall’essere al conoscere, all’agire.
Correva il secolo quinto avanti Cristo quando Parmenide istituiva la via maestra della filosofia, e poi della scienza: solo ciò che è, è (ossia esiste) e non può non essere; solo ciò che è può essere pensato e solo ciò che è pensato può essere detto. Questa è la via della verità. E della realtà. Ontologica, logica ed etica. È il regno dell’oggettivo, quello che vale per tutti gli uomini e per sempre. Il resto, è non essere, opinabile, soggettivo, apparente. Irreale, falso, immorale. Il cammino è tracciato e con uno scarto potente cementato dal Socrate platonico viene messa fuori gioco l’altra faccia della medaglia illuminata invece dai sofisti che, più che predicare da cattivi e prezzolati maestri cose disdicevoli e contrarie alla verità, come’è passato nella più trita e banale versione scolastica, mettevano in campo ben altre dinamiche che avrebbero scardinato fin da subito tutta l’impresa.
Rimescolare le carte – Basti pensare all’assunto di Gorgia, e siamo sempre nel quinto secolo avanti Cristo: nulla è, se anche fosse non sarebbe pensabile e se fosse pensabile non sarebbe dicibile. Assioma che resterà a covare per un paio di millenni prima di erompere con tutta la sua potenza repressa quando la parabola metafisica giungerà al termine, a fine Ottocento, sotto la forma: tutto è apparenza, maschera e divenire. E la realtà starebbe tutta qui, orizzontale, in un nietzscheano rimando infinito di senso. In verità, dopo il rigore eleatico spinto fino alla negazione del divenire e del sensibile, al punto che la tartaruga di Zenone avrebbe superato in eterno il piè veloce Achille, che l’apparenza non fosse poi così cattiva lo aveva ammesso anche Platone, assegnandole quel canone di verosimiglianza con l’essenza ideale che, sapientemente usato, avrebbe fatto da trampolino verso il vero e il bene.
Le variazioni sul tema nel corso dei secoli hanno via via riconosciuto all’apparenza sensibile quel ruolo imprescindibile di disvelamento della realtà che, opportunamente “corretto” ed elaborato matematicamente in maniera codificata e ripetibile, sta alla base del metodo scientifico moderno, quello galileiano. E però, infine, lo stesso concetto di realtà ha subito una torsione completa, portandosi appresso l’avvitamento della verità sul senso: dall’esistere delle cose fuori dalla mente umana o comunque indipendentemente da essa, al modo di essere delle cose in rapporto all’attività umana come produzione di senso, di significato. Ed ecco che l’essenza delle cose sta nel fenomeno, nel loro apparire, nel manifestarsi così come esso avviene.
E la verità viene soppiantata dal senso. Quel che s’incontra nella pratica quotidiana della vita è la realtà, non c’è qualcosa che esista all’esterno, fermo e immobile, sconosciuto, inafferrabile al di là dei sensi. C’è invece da incontrare la realtà e modificarla ed essere modificati. Nulla di oggettivo, tutto di soggettivo. Anche quando si tratta di scienza, passando dalla Krisis di Edmund Husserl e spostandosi fino agli estremi libertari-anarcoidi di Contro il metodo di Paul Feyerabend. Ed è proprio qui che il solido senso comune potrebbe subire qualche contraccolpo, non senza aver esibito la più prevedibile e potente delle obiezioni: un conto è quello che mi appare, un altro è quella stessa cosa ma così com’è davvero, cioè come la fotografa, scomponendola in atomi e teorizzandola in formule progressive, la scienza. Nell’adesione tra la prima e la seconda avrò la verità vera.
Se non accade – Altrimenti, avrò apparenza. Solo che, anche lo scienziato, che è un uomo, per “fare scienza” isola un singolo modo di operare all’interno delle molteplici possibilità umane d’incontro con le cose, e a quello si attiene per arrivare a una lettura misurabile e tecnicamente utile delle cose stesse. Ma non più vera di altre. Osservare un volto e scorgerne la bellezza e innamorarsene non è meno vero se a osservare lo stesso volto è, ad esempio, un dermatologo che dovrà pronunciarsi sulla fisiologia dell’epidermide. Sono campi di senso differenti, con premesse e finalità diverse.
Allo stesso modo, durante un esperimento scientifico, per afferrare una provetta basta volgere il viso e muovere il braccio in quella direzione, non è certo necessario conoscere qual è “la verità di quegli atti”, quali sono i muscoli del collo interessati al movimento e quale impulso il cervello debba dare al braccio. E se mentre cammino per la strada sto a capo chino sul cellulare inviando messaggini e mi scontro con un albero che arreda il marciapiede e prendo una botta in testa, beh non è necessario conoscere la verità scientifica, sapere tutto degli atomi e della sintesi clorofilliana, perché tutto il “peso ontologico” di quell’albero mi sbatta contro nella realtà e non in apparenza.
Per non farmi male, dovrò evitare di scrivere sms mentre cammino o almeno ogni tanto alzare la testa e guardarmi attorno. E il senso comune tutto questo lo sa già, perché lo pratica di continuo. Altrimenti non ci sarebbe vita singola e collettiva. Non sono cose che capitano tutti i giorni? Non sono forse le esperienze più comuni? E allora, e di rimando alla rassegna che comincerà domani: cosa è reale e cosa apparente? E dove sono i confini tra i due, tra l’oggettivo e il soggettivo, tra la realtà e i suoi fantasmi?
Anna Prada