Monza – Chissà chi si prenderà la briga di pagare l’ultimo giro al banco se i Mercanti di liquore non sono più nei paraggi. «L’attività è sospesa», poco altro, sul sito ufficiale: ognuno pronto a inseguire progetti personali, o solisti. E dire che per una decina di anni e qualcosa di più erano stati un fenomeno che si era allargato progressivamente a tutta Italia, sempre o quasi sotto la linea di confine tra la notorietà e la fama. Una voce rimbalzata per i quattro angoli della penisola, un sasso in uno stagno: il primo cerchio che abbraccia Monza e dintorni, poi si allarga e raccoglie la Lombardia e poi via via più lontano dal tuffo sulla superficie dell’acqua.
Quel primo disco, l’ultimo anno dei Novanta, “Mai paura”, sapeva a chi andava incontro: le folle di persone che li seguivano di locale in locale, di festa di festa per ascoltare la voce grave di Lorenzo Monguzzi che cantava De Andrè e che, diavolo, era quasi uguale. C’era ancora Faber, ancora per poco, ma i suoi concerti non erano poi così frequenti: e allora i Mercanti, con Simone Spreafico e Piero Mucilli, che al cantautore genovese avevano tributato anche il nome. Era il suonatore Jones quello che chiedeva al mercante di liquore di “Non al denaro, non all’amore né al cielo” «tu che lo vendi, cosa ti compri di migliore? ».
Le cover erano state solo l’inizio, il pretesto, una scusa per andare su un palco, suonare e cantare. Poi era arrivato il tempo dei lavori propri, il riconoscimento di chi la musica la conosce, le collaborazioni, la consacrazione a Genova quando De Andrè se n’era andato e anche loro, quei tre monzesi, erano finiti sul grande palco del concerto tributo, nel Duemila. La decina di anni dopo l’hanno trascorsa così: sogni e progetti, lavori, Marco Paolini che li sceglie per due produzioni teatrali. Poi basta. Anzi, ora basta. Nessuno ha il coraggio di dire che è finita. Perché poi ci sarebbero gli scivola va via non te ne andare, le lettere vere di notte e false di giorno e d’altra parte vedi cara, è difficile spiegare, se non hai capito già. No: i Mercanti non hanno chiuso bottega, ma credere che da un giorno all’altro torneranno a suonare significa scommettere sul nulla.
«No. Non abbiamo avuto il coraggio di dire che è finita» conferma Monguzzi, monzese, nato nel maggio 1967, quando De Andrè mandava in giro per il mondo la bambina di Via del Campo, l’infedeltà di Barbara, Carlo Martello e Bocca di rosa. «Ma è così. La crisi parte da me. Se capissi, poi, che le cose stanno diversamente, non escludo che i Mercanti possano ricominciare. Ma temo il degrado fosse a livelli avanzatissimi». Non si tratta di rapporti, non si tratta di nevrosi, ma «di non voler vedere la musica come una società da gestire », segnare le entrate e le uscite a bordo spartito. Si tratta di voler sognare ancora – «e i sogni su commissione non funzionano». «Ne abbiamo parlato, ma io non credo alle crisi che si risolvono suggerendo una soluzione per poi finire a stare attenti a cosa si dice, a cosa si fa».
Da solo, allora, proprio quando i Mercanti erano forse all’apice. Qualche data in giro, giusto in settimana alla Festa nazionale democratica di Pesaro, dove Monguzzi si è presentato con una violoncellista e altri due musicisti testando insieme altri suoni, qualche brano nuovo e il gusto di osservare le reazioni del pubblico. «Sì, canto ancora i pezzi dei Mercanti, raccontano la mia vita, non potrei fare altrimenti». Intanto il lavoro continua sul materiale che presto o tardi – ma tardi è la fine dell’inverno, l’inizio della primavera – saranno il suo primo lavoro solista. «È difficile, lo ammetto: mi sono accorto che il repertorio è fermo. E poi metto a confronto quanto ho scritto di recente con i pezzi vecchi e vedo che tutto è cambiato, il modo di avvicinarsi alla scrittura. Però se ho imparato qualcosa da Marco Paolini è proprio questo: che non bisogna preoccuparsi della parte filologica, bisogna solo essere coerenti con se stessi e fare. Poi funziona».
Quello sembrava un altro capitolo chiuso, e invece no: Monguzzi sarà ancora sul palco con Paolini per due produzioni, “Per vardar” e “Uomini e cani”, un lavoro su Jack London. «Con lui ho scoperto che la musica, ma anche il suono, al limite del rumorismo, ha valore letterario, addirittura lessicale. E che le note possono avere senso tanto quanto lo hanno un silenzio o un semplice battito sulla cassa della chitarra». E quindi cambierà anche il modo di comporre musica? «Sì, penso di sì. La verità è che non me ne curo. Ma in fondo ho sempre ammirato chi è disposto a cambiare. Chi sa fare scelte coraggiose», capaci di scompaginare con un colpo di mano lo spartito di sempre. E allora in autunno in sala di incisione. Poi le virgole, gli accenti e i punti e a capo. A gennaio, nelle speranze, a febbraio per fare i realisti, a marzo o aprile al massimo per non fare sempre quello che non rispetta i tempi: il disco sarà pronto. «E intanto dovrò abituarmi alla pelle nuova».
Massimiliano Rossin