Ricordo di Mosè Bianchi (1840- 1904) a centovent’anni dalla morte

Un excursus sugli esordi e la carriera del pittore monzese di cui a marzo ricorre l'anniversario, protagonista dell'Ottocento lombardo.
Nel duomo di Monza, Mosè Bianchi
Nel duomo di Monza, Mosè Bianchi, Musei civici di Monza

Non sono tantissimi i centovent’anni della morte di Mosè Bianchi, ma sufficienti per ricordare un grande artista lombardo e monzese che seppe nella seconda metà dell’Ottocento divenire figura portante della pittura di genere. “Pittore di chiara fama” lo celebrò l’amministrazione comunale di Monza con una targa-memoria nel cinquantenario della morte nel 1954.

Celeberrimo già ai suoi tempi intanto perché con i ripetuti soggiorni a Venezia realizzò vedute lagunari, replicate in numerose versioni; difatti è del 1879 la “Laguna in burrasca a Chioggia”, prima di quella serie di opere che portarono in alto il suo nome, tanto da divenire uno dei più interessanti “marinisti” dell’Ottocento, e che rappresentano assieme alle scene di genere, i temi più amati dall’artista monzese. A me piace anche ricordare il nostro Mosè Bianchi per via di importanti opere pubbliche, giacchè alla fine degli anni Settanta dell’Ottocento iniziò la sua attività di affreschi che andarono a realizzarsi con il ciclo neotiepolesco dei saloni della Villa Giovannelli a Lonigo, presso Vicenza, seguiti, nel 1883, dalla decorazione prima della saletta della Stazione ferroviaria di Monza -un capolavoro- e nel 1885 dalle decorazioni di Palazzo Turati a Milano. Nel 1888 aveva esposto a Bologna, insieme con altre tele, “Parola di Dio”, oggi nella Galleria nazionale d’arte moderna di Roma.

Mosè Bianchi (1840- 1904): i temi delle sue opere

Mosè Bianchi
Mosè Bianchi

E a proposito dei paesaggi lombardi, che sono tanti e variati, carichi di domestico e di quotidiano, ecco che nel 1890 a Gignese, sopra il Lago Maggiore, dipinse, pur con il nascente ausilio fotografico, una serie di vedute alpine, ove i grandi massi di pietra fanno da sfondo a isolate figure di giovani pastori; dello stesso periodo sono anche le suggestive vedute di Milano, spesso innevata, e della periferia lungo il Naviglio. E capolavoro tra i capolavori, oggi nei Musei Civici di Monza, ritrovo quella tela dal titolo “Nel Duomo di Monza” (olio su tela, cm 49×35, Firmato e datato in basso a destra: “Mosè Bianchi ‘72”, datato 1872. Il dipinto dello stesso periodo del più noto “Una buona fumata”, assegnabile al 1872/73, va ascritto allo stesso periodo in cui Mosè Bianchi riprende la fortunata tematica dei chierichetti, iniziata già con l’opera “La vigilia della sagra” del 1864 che è la sua prima importante prova nella riforma della pittura di genere.

Mosè Bianchi (1840- 1904): Risorgimento o no

Sappiamo dagli scritti di Giulio Pisa (1906), ripresi poi da Guido Marangoni (1924), che i fervori risorgimentali del Mosè Bianchi ebbero vita breve, in quanto arruolatosi in un battaglione dei Cacciatori delle Alpi durante la seconda guerra di indipendenza italiana “per la sua indisciplinatezza passò buona parte di quel tempo agli arresti e un’altra parte la occupò riempiendo di schizzi e di caricature foglietti ed albums”. E quel luogo, topos prediletto della sua pittura, che è stato il Duomo di Monza, meglio esprime per il pittore la disillusione per la sua esperienza militare e per la stessa conclusione della seconda guerra d’indipendenza che vide l’Austria cedere la Lombardia alla Francia con la pace di Villafranca. Non può sfuggire quel magistrale olio -sempre l’interno del Duomo- che, accanto alle note del tricolore, concluso dallo sguardo del chierichetto che collega il bianco al verde, risaltano con evidenza il blu e il rosso delle coste dei volumi appoggiati sulla base del leggio, che rendono chiara l’allusione alla Francia.

Neve a Milano, Mosè Bianchi
Neve a Milano, Mosè Bianchi

Delusioni per l’evento storico provocate in tanti patrioti dal modo in cui si stava realizzando l’Unità d’Italia, e che il Mosè Bianchi sceglie per questa sua riflessione malinconica arrivando forse ad autorappresentarsi nello stupore perplesso del chierichetto. Tutto ciò avvicina Mosè Bianchi alle convinzioni, oltre che ai modi stilistici, della Scapigliatura, ma al tempo stesso lo differenzia e conferma il privilegio dell’arte rispetto alla politica.

Mosè Bianchi (1840- 1904): il successo e l’accademia

Infatti al suo ritorno si ambientò meglio nel nuovo clima artistico dell’Accademia, dominato dalla pittura storico-romantica di Francesco Hayez de “Il bacio”, e di Giuseppe Bertini, del quale Mosè divenne l’allievo prediletto. E dopo le prime prove accademiche Mosè Bianchi inaugurava un filone iconografico tipico della sua produzione, destinato a muovere la popolarità, quello degli interni di chiesa, con la nota serie dei “chierichetti” e delle “sagrestie”, allegri quadri di genere di gusto anche aneddotico, portati avanti con una maggiore spigliatezza pittorica e una ricerca cromatica più interessante. Mi piace ricordare “Il ritorno dalla sagra” -l’opera più nota della serie dei “chierichetti”-, del 1880, un olio su tavola parchettata (75,5 x 48,2 cm) che per lungo tempo considerato disperso, è riapparso sul mercato solo in anni recenti, entrando a far parte della raccolta della Fondazione Cariplo di Milano.

Mosè Biianchi
Mosè Biianchi

Il dipinto, eseguito nel 1880, firmato e datato in basso a sinistra, venne presentato nello stesso anno all’Esposizione della Promotrice di Genova e a quella di Brera a Milano e in quest’ultima circostanza l’opera raccolse gli elogi della critica, in particolare quelli di Virgilio Colombo che, recensendo la rassegna d’arte sulle colonne de “La Lombardia” sotto lo pseudonimo di “Athos”, definiva il dipinto “indovinato nel carattere e nell’intonazione dei colori”. Il successo ottenuto al tempo dell’esposizione braidense rese il soggetto di quest’opera particolarmente richiesto dai collezionisti, giustificandone le numerose repliche, fra le quali la più significativa, datata 1887 e proveniente dalla raccolta di Francesco Ponti, è conservata dal 2011 nella Galleria d’Arte Moderna di Milano.

Nel dipinto Mosè Bianchi propone una vivace scena di genere che ha per protagonisti due chierichetti raffigurati lungo un sentiero della campagna brianzola, di ritorno da una sagra: nel viottolo, percorso in lontananza dal gruppo più compatto degli altri chierichetti, si fa loro incontro, sotto una pioggia che pare incessante, un chiassoso gruppo di oche. Il soggetto dei chierichetti, non nuovo nella pittura dell’artista monzese, si arricchisce qui dell’ambientazione all’aperto, resa con sapienti effetti di luce e suggestivi accostamenti cromatici, elementi caratteristici del naturalismo lombardo.

Mosè Bianchi (1840- 1904): i disegni e le incisioni

Nonostante tutto ciò, la sua pittura fu poco apprezzata dai conformisti della pittura, tanto che ricevette scarsi riconoscimenti ufficiali; e dopo una breve attività di consigliere comunale a Milano e aver tentato invano di ottenere una cattedra di insegnante all’Accademia di Belle Arti di Torino, solo nel 1898, ormai malfermo, accettò la cattedra presso l’Accademia di Verona di cui ne divenne anche direttore, ma dovette quasi subito rientrare a Monza per motivi di salute, dove morì nel 1904.

La sua produzione su tela fu molto consistente, ma un’esatta valutazione dell’artista non può non considerare anche la sua notevole abilità come disegnatore e incisore. Preziosi i giudizi e le recensioni sul suo lavoro; così scrisse Pischel: “Gli studi tenaci e attenti lo avevano dotato di una tecnica perfetta, ai primi saggi (improntati di un torbido romanticismo di ispirazione letteraria), a contatto con i grandi settecentisti veneti seguono opere pittoricamente più sane, di un romanticismo più contenuto e appoggiato a un colore nutrito ed energico”. E ancora Arduino Colasanti: “Fu saldo disegnatore, compositore disordinato, schiettissimo pittore, succoso, fresco, vario in quel suo cromatismo in cui il colore dei veneziani riecheggia senza affievolirsi, esperto di ogni segreto dell’arte nel rendere la finezza dell’atmosfera e nel modellare con l’efficacia della pennellata nervosa”.


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Carlo Franza

Nato nel 1949, Carlo Franza è uno storico dell’arte moderna e contemporanea, italiano. Critico d’arte. È vissuto a Roma dal 1959 al 1980 dove ha studiato e conseguito tre lauree all’Università Statale La Sapienza (lettere, filosofia e sociologia). Si è laureato con Giulio Carlo Argan di cui è stato allievo e assistente ordinario. Dal 1980 è a Milano dove tuttora risiede. Professore straordinario di storia dell’arte moderna e contemporanea (Università La Sapienza-Roma) , ordinario di lingua e letteratura italiana. Visiting professor nell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e in altre numerose università estere. Giornalista, critico d’arte dal 1974 al 2002 a Il Giornale di Indro Montanelli, poi a Libero dal 2002 al 2012. Nel 2012 ritorna e riprende sul quotidiano “Il Giornale” la sua rubrica “Scenari dell’arte”.