Cinque anni. Istantanee del virus. Ti volti indietro nel film della tua esistenza e ti accorgi che è passata un’era geologica da allora. Da quelle fotografie di vita vissuta. Fotografie ormai sbiadite dei primi tempi del Covid fatte di scaffali dei supermercati saccheggiati dalla gente impazzita. Tutto tranne le penne lisce. Di camion militari con sopra le bare. Di giorni interi passati ad aspettare il bollettino del professor Locatelli. Per un lungo periodo ci eravamo affezionati a lui e al suo parlare a scatti che aveva fatto la felicità di mio figlio capace di imitarlo alla perfezione. Dei medici e degli infermieri eroi quotidiani senza nome. Delle bistrattate cassiere dei supermercati che, abbandonati i panni alla Giusy Ferreri, erano rimaste in prima linea a prendersi insulti e virus. Maledetto.
Pure io ti ho incontrato e non ho avuto molto tempo di scegliere. La corsa a velocità folle in ospedale, all’alba. La paura. Venti secondi per fare una cura sperimentale o morire di lì a poco. Gli amici che ti salutavano dalla finestra lasciandoti le focacce davanti alla porta di casa. Ora ci sorrido. Allora un po’ meno. E chi se lo dimentica il Covid. I frati con la faccia rossa perché si lavavano con l’alcol non avendo niente altro. Gli alpini della cucina da campo. Le camionate di pasta e viveri. La solidarietà diffusa che ti portava a dividere quello che avevi con il tuo vicino di casa. Le strade deserte. L’amico che si era innamorato di una donna ed era andato sino a Trento a recuperare un pezzo di ricambio per un macchinario salva vita. Gli slogan. “Andrà tutto bene”. Non è stato proprio così. Ma allora ci credevamo tutti quanti. Ma io sono un incredibile ottimista. Ci credo ancora . Nonostante tutto. Nonostante la carta di identità.