La pittura-scultura di Agostino Bonalumi, una cartografia dell’universo

I percorsi comuni e indivduali di una protagonista dell'arte in Brianza, nato e cresciuto in Brianza, di "rigorosa creatività".
Agostino Bonalumi
Agostino Bonalumi Massimiliano Rossin

È già trascorso qualche decennio quando ebbi modo di presentare più volte il  lavoro autorevole di Agostino Bonalumi, e questo non solo in quella galleria di peso che era lo Studio F22 di Palazzolo Sull’Oglio-Brescia, luogo che  attirava i più grandi artisti del mondo (Adami, Eielson, Le Parc, Garcia Rossi, Demarco, Veronesi, Dorazio, Perilli, Carlos Boix, Keizo Morishita, Munari, Carmi, Torquinst, Scanavino, Costalonga,  ecc.), ma anche in prestigiosissime rassegne come  “Le geometrie dell’universo”  che si tenne  al Convento dell’Annunciata al Monte Orfano di Rovato- Brescia nel 1997 per volere  del gallerista  Franco Rossi, Regione Lombardia e Provincia di Brescia.

Agostino Bonalumi e il secondo Novecento

Agostino Bonalumi era uno degli artisti di punta di questa storica galleria internazionale che ho avuto modo di seguire con la direzione artistica, per ben vent’anni.  È oggi doveroso parlare di Agostino Bonalumi (Vimercate, 1935 – Desio, 2013) artista fra i più significanti dell’arte italiana del Secondo Novecento, attivo nel filone più generale dello spazialismo, ma vivace interprete della pittura analitica e delle estroflessioni, innervato nello spirito del tempo della Milano degli anni “preziosi”.

L’opera “Rosso” di Agostino Bonalumi battuta a Milano
L’opera “Rosso” di Agostino Bonalumi battuta a Milano

Lavorava in Brianza nella pasticceria del padre e poi, la sera, raggiungeva gli amici Piero Manzoni, Enrico Castellani o Lucio Fontana al bar Jamaica in Brera. Bonalumi si recava a Milano per teorizzare quelle sperimentazioni in arte che ne hanno cambiato percorso e storia. Nel dopoguerra Bonalumi segue le orme paterne e, per le ristrettezze economiche della famiglia, non riuscirà mai a diplomarsi. Dalla fine degli anni Cinquanta Bonalumi, infaticabile ricercatore e lavoratore, sviluppa la sua vocazione di pittore -anche un po’ solitario- convinto che l’arte dovesse, a tutti i costi, fare qualcosa di nuovo. Sono anni in cui Milano consegnava al mondo intero movimenti unici che hanno poi rivoluzionato l’arte mondiale. 

Bonalumi, Castellani, Manzoni, Fontana e lo spazio

Milano è stata la prima al mondo a lavorare, -con Piero Manzoni, Agostino Bonalumi, Enrico Castellani, Lucio Fontana, Sergio Dangelo che con Baj aveva inaugurato il nuclearismo, eppoi Roberto Crippa-  sull’indagine dello spazio, sulle sue possibilità di percezione, visione e bellezza. Milano in primis. Negli Stati Uniti c’erano altre ricerche, quella di Frank Stella, ad esempio, ma dove la tela aveva rese e funzionalità estetiche diverse.  Il lavoro di Bonalumi si portava dalle prime tele estroflesse monocrome in cui i giochi di luce e ombra, di geometrie, inserti e tagli spaziali, di equilibri minimi delle forme, creavano ambienti tridimensionali, alle sculture di fine anni Sessanta in poliestere rosso o quelle raffinate in bronzo dorato, che cercavano di racchiudere una sinuosità formale, e poi ancora le opere degli anni Ottanta in ciré, un tessuto-non tessuto che Bonalumi utilizzava per restituire lucentezza allo spazio.

Memorabile quella sua mostra dal titolo “Agostino Bonalumi. Spazio, ambiente, progetto” al Museo del ‘900; un’invasione dello spazio rigorosa, densa e dovuta. La sua arte era già nelle sue parole, “ricerca formale e attenzione all’apparenza”; diceva ancora che nasceva da un incontro tra queste due tensioni estetiche: “La sola forma sarebbe disegno industriale, la sola apparenza ci farebbe ricadere nell’estetica dell’informale”. Ma la storia di Bonalumi parte fra fine anni Cinquanta e inizi anni Sessanta. E non c’era solo Milano.  C’era Sesto San Giovanni, dove frequenta Bonalumi altri artisti, nel mitico Quartiere delle botteghe di Sesto. Qui si trovavano anche gli atelier di Castellani, Vermi e Bonalumi, tra gli altri. Nel 1964 Bonalumi risiedeva al Quartiere delle Botteghe di Sesto San Giovanni dove con altri artisti, fra i quali Arturo Vermi , Enrico Castellani, Lino Marzulli e Lino Tiné, lavorava per trasferire nella quotidianità le esperienze artistiche. Arturo Vermi nel mentre, con un contratto si impegnava  e si legava  per una lunga serie di esposizioni, all’architetto Arturo Cadario.

Agostino Bonalumi e la Brera dei Cinquanta

Bonalumi cresce nella Milano leggendaria in cui gli squattrinati artisti si ritrovano in trattorie – in questo caso quella di Pino Pomè – che offrono pasti in cambio di quadri; come già facevano anche le sorelle Pirovini in via Fiori Chiari.  Qui Bonalumi fa il suo incontro leggendario con Piero Manzoni ed Enrico Castellani. Insieme muovono i primi passi, e i loro punti di riferimento sono Lucio Fontana e Alberto Burri, ovvero la loro ricerca di una nuova definizione della superficie pittorica. È certo che Bonalumi, che pure fa una delle sue mostre con Manzoni e Castellani nel 1957 alla Galleria Pater, non aderisce fino in fondo al loro progetto. E nonostante il suo tracciato artistico si identifichi con quel rigore fecondo che ha caratterizzato un segmento dell’arte lombarda, –quella di Castellani ma anche di Dadamaino, Getulio Alviani, Turi Simeti (arrivato  da Alcamo   a  Roma e poi a Milano dal 1965) – la sua sarà sempre una ricerca solitaria, individuale.

mostra agostino bonalumi palazzo reale milano
Un’opera di Agostino Bonalumi

Questo suo essere solitario, questo vivere appartato, gli consegnava anche un chè di aristocratico costume. Certo, aristocratico non lo era, ma  s’era guadagnato per tale comportamento un suo essere artista fuor dal comune. A partire dal 1959 Agostino Bonalumi ha cominciato a realizzare opere sagomate utilizzando la tela estroflessa ottenuta tramite l’uso di elementi in legno o acciaio posti dietro la tela. Una caratteristica stilistica che rimarrà invariata negli anni e che porterà l’artista a cimentarsi sia in ambito scultoreo sia in quello ambientale/architettonico

Si disse subito che la superficie “era” l’opera, sino ad accettare la definizione che Gillo Dorfles dava di queste esperienze come “pittura-oggetto”, ed era merito certo di questi artisti -ad iniziare da Bonalumi- aver accettato la rivoluzione di Fontana e portata avanti “con altri mezzi”.   Agostino Bonalumi, con un passato di artigiano brianzolo, ha messo in piedi una sua tecnica che lo vede oggi, senza dubbio, tra le personalità di rilievo della nuova arte astratta italiana. Quando si parla di Bonalumi lo si collega a Castellani e quindi alle estroflessioni, ottenute cominciando a modificare le tele nelle quali impone delle centinature a cui la superficie si deve adeguare. Tele che vengono poi dipinte con tempere viniliche che, soprattutto all’inizio, si rivelano in rigorose tinte primarie: nero, rosso, blu, grigio, bianco, e queste tinte monocrome sconfinano anche nell’arte analitica.  Pitture-oggetto le ha definite il collega critico Gillo Dorfles.

Agostino Bonalumi a New York

“Bianco” di Agostino Bonalumi, una delle opere esposte al Museo di Lissone
“Bianco” di Agostino Bonalumi, una delle opere esposte al Museo di Lissone

Questa è anche un’arte minimale che però, a differenza di quella d’oltreoceano, predilige una capacità più artigianale che concettuale, realizzandole in grandi ambienti. Bonalumi li realizza prima alla galleria Bonino di New York, poi alla mostra Lo spazio dell’immagine a Foligno nel 1967, ancora al Museum am Ostwall di Dortmund nel 1968, infine nella personale alla Biennale di Venezia del 1970 (dove era stato già presente nel 1966) con una Struttura modulare bianca che è un vero e proprio arredo ambientale. Il codice linguistico di Bonalumi è partito da un primo periodo che ha visto tele monocrome in prevalenza simmetriche, cui ne è seguito  un secondo a partire dal 1965, con infranta la rigidità simmetrica  e la sagomatura   del supporto ligneo; successivamente una terza fase  ove si accentua il carattere di “oggetto”, con  veri e propri corpi trimensionali; in una quarta fase si sono viste ricerche tridimensionali  e l’apparenza di corpi estroflessi  con un tendere verso un’organicità; in una  quinta fase alla tela normale si  è andato  sostituendo  il  “cirè” per arrivare poi a materiali plastici come il fiberglass.

Un sesto periodo ci porta a notare l’oggetto plastico, che ha visto trasformarsi il singolo oggetto da contenuto a contenitore. A questo punto è arrivata  una nuova componente, metapittorica, una serie di “disegni-progetti”. Un percorso esemplare, lungo certo, e certosino,  ove le estroflessioni sono divenute vere e proprie ricerche sui materiali.   Cinquant’anni di meticoloso lavoro di Agostino Bonalumi hanno mostrato una sua “rigorosa creatività” e il collega Tommaso Trini potè sostenere che le tele dell’artista brianzolo sono diventate “cartografia dell’Universo”.

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Carlo Franza

Nato nel 1949, Carlo Franza è uno storico dell’arte moderna e contemporanea, italiano. Critico d’arte. È vissuto a Roma dal 1959 al 1980 dove ha studiato e conseguito tre lauree all’Università Statale La Sapienza (lettere, filosofia e sociologia). Si è laureato con Giulio Carlo Argan di cui è stato allievo e assistente ordinario. Dal 1980 è a Milano dove tuttora risiede. Professore straordinario di storia dell’arte moderna e contemporanea (Università La Sapienza-Roma) , ordinario di lingua e letteratura italiana. Visiting professor nell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e in altre numerose università estere. Giornalista, critico d’arte dal 1974 al 2002 a Il Giornale di Indro Montanelli, poi a Libero dal 2002 al 2012. Nel 2012 ritorna e riprende sul quotidiano “Il Giornale” la sua rubrica “Scenari dell’arte”.