Ho tra le mani un bellissimo libretto (Copia 3/150), copertina verde acqua, un Ex-libris della Collana Ex-Libris delle Edizioni Severgnini Stamperia d’Arte di Cernusco Sul Naviglio, facente parte della collana curata da me e quel carissimo poeta e intellettuale/amico che è stato Roberto Sanesi; libretto uscito nel marzo 1984 dal titolo “Pagani in Lombardia” (8 poesie) di Alberico Sala, le cui prime 75 copie sono accompagnate da una grafica di Giorgio Larocchi.
Giorgio Larocchi: da Muggiò ad Arcore
Vi dico cosa rappresenta, una striscia di terra verde e alberi in basso, mentre s’alza una cicogna gialla con le ali dispiegate nel gran cielo azzurro. Giorgio Larocchi (Muggiò, 10 ottobre 1929 – Arcore, 6 ottobre 2007) è stato un signor pittore e poeta italiano, morto quindici anni fa. Nacque nel 1929 nella città di Muggiò, dimostrando fin da tenera età vivace intelligenza e grandi capacità pittoriche. Nel 1957 fece il suo esordio nel Premio Diomira, e successivamente partecipò ad altri concorsi, quali Premi La Spezia, San Fedele 1959, San Marino, Apollinaire 1960, Arezzo, Ramazzotti 1963, Città di Lucca e altri. A partire dai primi anni novanta iniziò a dedicarsi alla poesia, di cui pubblicò un libro, Esercizi di melanconia, nel 2006. È morto ad Arcore in Brianza, in cui viveva da molti anni, il 6 ottobre 2007. Dicevo di Larocchi, pittore e poeta, termini mai disgiunti, mai contrastanti, ma il poeta vive nel pittore e viceversa. Non è poco. È infatti questo aspetto a lasciar meglio vivere e a incorniciare la personalità, la sensibilità, di questo pittore brianzolo, notato proprio per ciò subito dalla critica fin dagli anni Sessanta del Novecento a cominciare da un critico intelligente e acuto come Franco Russoli che allora era il Sovrintendente di Brera e che sognava la “Grande Brera”.
Giorgio Larocchi: la mostra del 1962
Ed è stato proprio Russoli che aveva subito intuito e sottolineato nel catalogo per la mostra alla milanese Galleria Toninelli (1962), sia le provate capacità tecniche affinate da un lungo esercizio, che la capacità di evocare ambienti naturalistici “senza disperdersi nei labirinti fioriti di un’arcadia formalistica”, trascrivendovi al tempo stesso “simbolicamente situazioni psicologiche”, fino al punto di leggere nelle sue immagini “la storia di una inquieta personalità umana, sempre tesa in una passione sentimentale, fino alla tenerezza, come fino all’acredine, e che tale foga controlla, giudica e spesso condanna al lume di una ragione che non abdica mai ai propri diritti”.
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È questa, la stagione milanese del primo suo vero consenso critico in occasione della personale alla Galleria Toninelli di via Bagutta, a Milano, nel 1962, ove espone una trentina di chine e tempere, accompagnato dal testo critico di Franco Russoli, che ebbe per lui parole di significativo elogio.
C’è di più, perché per il giovane Giorgio Larocchi, il Russoli allora chiaro mentore, già notava un futuro glorioso: “Sono sicuro”, dice infatti in conclusione della sua nota introduttiva alla Toninelli, “di presentare, con questa prima personale di Larocchi, un vero artista, un nuovo pittore”; tanto vero che questa sua intuizione fu poi confermata dalle successive esposizioni. Via via negli anni a venire altri estensori critici e scrittori dell’opera larocchiana, quali Mario De Micheli, Roberto Sanesi e Alberto Crespi, si cimenteranno a spiegare la sua poetica svelando immagini di “serena e splendente autorità”, intrise di “una sostanza luminosa, terrestre, ma trasposta in termini di pura tonalità, in accordi fedeli a un’antica connaturata sensibilità pittorica italiana” (Russoli, in occasione della mostra alla Galleria delle Ore, Milano 1969); ecco una pittura capace di muovere “la struttura di un’immagine senza peraltro preoccuparsi di un’esteriore verosimiglianza”, sfuggendo “ad una definitezza mimetica” per dar corpo attraverso un colore “di natura psicologico-lirica” a trait-d’union tra individuo e natura (De Micheli, per la mostra alla Galleria Il Cortile, Monza, 1977); e ancora chi “l’indizio di come tradurre il visibile in visione non caricando le immagini di simboli per sovrapposizione forzata ma spogliando l’oggetto, riducendolo a una traccia”, porgendo opere talvolta quasi astratte in una sorta di “vuoto estatico”, come “memoria del quotidiano e memoria di un possibile” (Sanesi, per la mostra alla Biblioteca Civica di Muggiò, 1986); e altri come Crespi a notare un Larocchi pittore altilenante tra ambito naturalistico e astratte sequenze informali, con “esiti lirici puri e risonanze inaspettate”, cui dà forza la parallela attività di scrittura poetica, giornaliera, assidua, necessaria (Crespi, su “Il Cittadino”, Monza 20.1.1994).
Giorgio Larocchi: il pittore del segreto dell’esistenza
Ancora lusinghiero il pensiero dello stesso Russoli per la successiva esposizione milanese, nell’autunno del ’65, presso la Galleria delle Ore, con opere incentrate sul rapporto uomo-natura e non solo, o di un paesaggio che risente ancora di accensioni da “realismo esistenziale” di fine anni Cinquanta. Un “pittore poetico”, lo definì Mario De Micheli, recensendo questa mostra su “L’Unità” (novembre 1965), in quanto notava una pittura pronta “a cogliere il pathos della vita e del cosmo”, con le sue “immagini ambigue umano-vegetali”, Larocchi dipingeva nelle sue tele “il segreto dell’esistenza” attraverso una resa pittorica di “forme in divenire piuttosto che forme definite”, in campiture di colore “ondulate e densamente fluenti”, rivelando una notevole maturità nel trovare un “tono giusto e sempre suggestivo”. Non dimentichiamo che Larocchi, per anagrafe e formazione, ha i suoi esordi nella seconda parte degli anni ’50, ovvero nel decennio in cui si afferma in Italia l’informale.
Giorgio Larocchi: l’archivio di emblemi
Tappa decisiva è la mostra del ’69, ancora alla Galleria delle Ore, a testimonianza di un processo che si va sviluppando in maniera armonica e regolare, senza rotture, ma progressivamente con crescite sicure a livello sia concettuale che pittorico. Non sono molte le opere superstiti di questo primo periodo, poche tele ma significanti e incisive, e molte opere erano su carta. Ecco “Composizione n°5” (tecnica mista su tela, 1961), in cui a campeggiare sulla tela è la “storia” cromatica di un rosso che si innesta su cangianti tonalità grigio-marrone, e mostrando con segni e colori una sorta di de-composizione, un anticipo di informali “astratti furori”.
Sono queste “prove” d’esordio, queste poetiche accensioni di paesaggio a procurargli incoraggianti riconoscimenti (il Premio Diomira, 1957), tanto che l’itinerario pittorico di Giorgio Larocchi, a partire dall’inizio degli anni ‘60, si porterà verso una dimensione lirico-poetica sempre più personale, perseguita soprattutto attraverso un colore che diverrà “fatto plastico” ( così Sanesi per la mostra alla Galleria Il Cortile di Monza, 1978), in esperienza segnica, a riprova di un’attività fantastica e illimitata dell’immaginazione, abolisce ogni spunto oggettivo per lasciare definitivamente spazio a suggestioni evocative e musicali, già altrove definita “forma / in fuga” (6/1/89, in Rammendi e nidi, 1990), attraverso una pennellata di acceso cromatismo e un segno sfuggente, per liberare quelle immagini di sogno (paesaggistica, animale, oggettuale).
Concordo, infine, con quanto Roberto Sanesi scrisse nel 1978 e cioè che la pittura “pur restando ancorata al particolare reale, al dato naturale osservato”, vuole esser letta come “un archivio di emblemi” (Sanesi rende più esplicito il suo discorso nella presentazione di una cartella dal titolo emblematico, Frammenti di una piccola storia naturale -Zarathustra Arte Incontro, Milano 1978).
Giorgio Larocchi: unità tra individuo e natura
È lui stesso, Larocchi, a riconoscere il suo dipingere in un’intervista a Ugo Marchetti: “Gli uccelli spesso rappresentano il trapasso: sono uccelli trampolieri, dal volo silenzioso, con chiari riferimenti simbolici. Le larve e gli insetti ricordano il tempo breve della nostra esistenza e anche gli insetti come gli uomini attraversano una continua serie di cambiamenti più o meno complessi prima della morte. A me, e da sempre, è interessato soprattutto riassumere il concetto della organica unità tra individuo e natura”.Il dato realistico “lombardo” del suo dipingere, lo ha portato anche in ambito europeo a innestarsi in quel “magico e inquietante naturalismo inglese” che fu del mio amico Graham Sutherland.
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Nato nel 1949, Carlo Franza è uno storico dell’arte moderna e contemporanea, italiano. Critico d’arte. È vissuto a Roma dal 1959 al 1980 dove ha studiato e conseguito tre lauree all’Università Statale La Sapienza (lettere, filosofia e sociologia). Si è laureato con Giulio Carlo Argan di cui è stato allievo e assistente ordinario. Dal 1980 è a Milano dove tuttora risiede. Professore straordinario di storia dell’arte moderna e contemporanea (Università La Sapienza-Roma) , ordinario di lingua e letteratura italiana. Visiting professor nell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e in altre numerose università estere. Giornalista, critico d’arte dal 1974 al 2002 a Il Giornale di Indro Montanelli, poi a Libero dal 2002 al 2012. Nel 2012 ritorna e riprende sul quotidiano “Il Giornale” la sua rubrica “Scenari dell’arte”.