«Non faceva male dover trattenere la pipì o non mangiare; faceva male quello che ogni giorno eravamo obbligati a vivere e a vedere». Inizia così il racconto di un’infermiera brianzola impegnata in prima linea nell’emergenza Covid. La sua storia, simile a tante altre, è stata raccolta da Domenico Cosi, segretario del Nursind, il sindacato degli infermieri di Monza e Brianza. La chiameremo Laura e rispettiamo la sua volontà di restare totalmente anonima (anche perché dalle direzioni generali degli ospedali lombardi è arrivato il divieto di rilasciare interviste se non autorizzate).
«Oltre la metà degli infermieri che hanno vissuto e lavorato nell’inferno del Covid-19 – spiega Laura – adesso soffrono di attacchi di ansia e panico e assumono ansiolitici. Anche io, non lo nego, la sera prima di andare a letto prendo le gocce per cercare di riposare».
Come Laura sono molti gli infermieri che si dicono stanchi: «Non vogliamo soldi, non chiediamo mance – continua Laura- siamo stanchi, abbiamo bisogno di riposare, le promesse che ci erano state fatte di riposi e recuperi non sono mai state mantenute. Finita l’emergenza sanitaria siamo ritornati il giorno dopo nei nostri reparti. Qualora succedesse un’altra emergenza le ferie estive non sono garantite; siamo stati precettati, se in autunno dovesse tornare una seconda ondata della pandemia. Una parte degli infermieri assunti durante l’emergenza, scaduto il contratto, sono andati via».
Laura ritorna ai giorni dell’emergenza quando in pronto soccorso arrivavano anche venti pazienti contemporaneamente in insufficienza respiratoria e bisognava decidere chi aiutare: «Abbiamo visto l’inferno, episodi e storie che rimarranno indelebili nella nostra mente».
In questi mesi Laura ha raccolto gli sfoghi e le confidenze di colleghi scioccati di fronte a quelle morti, spesso anche improvvise, con quadri clinici che peggioravano nell’arco di un quarto d’ora. «Ho visto un paziente cenare senza problemi – dice – e morire poco dopo per un’embolia polmonare».
Eppure lei non è una professionista alle prime armi: ha lavorato diversi anni in terapia intensiva ma quello che ha visto in quei mesi non lo ha mai visto, né studiato, né immaginato.
«Su venti pazienti Covid ciascuno aveva sintomi ed evoluzioni diverse della malattia. C’era chi dopo quaranta giorni riusciva a camminare, chi invece faceva ancora fatica a muoversi e a respirare».
L’aspetto emotivo e psicologico è stato devastante. Il rapporto con i familiari ha lasciato cicatrici che non si rimargineranno: «Eravamo abituati che al capezzale del malato arrivavo parenti e amici. Il paziente non moriva solo, ma circondato dagli affetti più cari. In questo caso, invece, l’unico contatto era telefonico: noi ad assistere a telefonate di pazienti in lacrime e dall’altra parte della cornetta mogli, mariti e figli che imploravano di poter vedere il loro congiunto, ma non potevano».
Tra le storie che riaffiorano alla mente c’è quella di una mamma di 47 anni che ha telefonato alla sua bambina per salutarla per l’ultima volta prima di essere intubata.
«In quelle storie noi ci siamo immedesimati perché anche noi siamo genitori; anche a noi poteva capitare la stessa cosa. Non è ammissibile che a 47 anni invece di progettare il futuro dall’oggi al domani ti ritrovi a dover salutare per sempre tua figlia».
Se Laura non è crollata lo deve alla sua famiglia, al marito che, pur temendo un eventuale contagio l’ha supportata e ha approvato la sua scelta di andare in prima linea. «In casa nostra – racconta – costante odore di candeggina. Ho abbandonato i miei figli in balia di loro stessi: sono stati grandi e meravigliosi».
Ma dall’oggi al domani non può tornare tutto come prima: «Gli infermieri – conclude Laura – hanno bisogno di aiuto, di riposo, di ferie, di supporto psicologico».n