Se la produzione evapora e a perdere sono solo gli operai

A Carate c’è chi smonta macchine. Chi smonta tradizioni e chi, con una calma svizzera che sfiora la poesia, smonta interi reparti produttivi. E’ il caso del  colosso elvetico da 7mila dipendenti sparsi per il mondo.

A Carate c’è chi smonta macchine. Chi smonta tradizioni e chi, con una calma svizzera che sfiora la poesia, smonta interi reparti produttivi. E’ il caso del  colosso elvetico da 7mila dipendenti sparsi per il mondo. Dopo un anno e mezzo di cassa integrazione e due mesi di trattative quasi da wrestling, arriva l’accordo sui 45 esuberi. Persone, non numeri. Mani esperte, professionalità costruite in decenni, vite che non vanno in archivio con un file Excel. Ma si sa: quando un settore tira meno  e quello tessile frena  è sempre più semplice chiudere la porta che ripensare l’azienda.  Per qualcuno una pensione anticipata, per altri una ricollocazione. Per i restanti l’incentivo all’uscita. Che poi è il modo gentile per dire “grazie e arrivederci, possibilmente alla svelta”. L’azienda, bontà sua, promette percorsi con agenzie interinali e formazione. Qualcosa tra la carezza sulla spalla e la pacca che ti spinge fuori dalla porta. La cosa che brucia di più? Che il lavoro c’era. E che si sarebbe potuto riqualificare, riorganizzare, trasformare. Invece si smantella. Piano preciso, chirurgico.

E allora sì, che questo editoriale sia schierato senza vergogna. Perché in un Paese che ogni giorno si riempie la bocca di “competenze”, “tecnologia”, “valore umano”, vedere un pezzo di industria storica che chiude è una sconfitta di tutti. Pure per noi.   Sarebbe il momento che qualcuno ricordasse che innovare non significa abbandonare. E che quando si spegne una produzione, muore un pezzo di territorio. Non un capannone: una storia. Una di quelle che non si ricostruiscono con un’indennità e un corso di aggiornamento. Perché i numeri cambiano, le aziende passano, ma la dignità del lavoro, quello vero, quello con la tuta e le mani sporche, quella no. Quella va difesa. Sempre..

L'autore

Marco Pirola fu Arturo. Classe 1962, quando l’Inter vinse il suo ottavo scudetto. Giornalista professionista cresciuto a Il Giornale di Montanelli poi approdato su vari lidi di carta e non. Direttore del settimanale L’Esagono prima e di giornali “pirata” poi. Oggi naviga virtualmente nella “tranquillità” (si fa per dire…) dei mari del sud come direttore responsabile de Il Cittadino.