Apocalittica la visione del disastro ferroviario avvenuto martedì 5 gennaio 1960, in città, alla vigilia di una tragica Epifania. Quando gli abitanti della zona (l’ex passaggio a livello di viale Libertà ove era in costruzione il sottopassaggio stradale in conseguenza del quale era stato eretto un provvisorio ponte di ferro) alle ore 8 sono trasaliti nelle loro case per aver avvertito come delle scosse di terremoto, la sciagura si era già compiuta. Poi l’orribile scena, per l’avvenuto deragliamento del diretto Sondrio-Milano che trasportava operai e studenti alle rispettive destinazioni.
Il locomotore era volato oltre il ponte rimanendo però sempre sulla rete dei binari in un pauroso groviglio di spezzoni di ferro e di fili della corrente. Il vagone di testa, di prima classe, aveva a sua volta compiuto un’impennata andando infine a schiantarsi, capovolto, contro un capannone del lanificio “BBB” di Angelo Borghi, che si trovava adiacente alla linea ferroviaria. Altre tre carrozze erano pure deragliate finendo nella scia della prima, fermandosi però all’area della ferrovia. Due ancora, tra cui un “postale”, erano precipitate giù dal ponte adagiandosi sulla scarpata. Infine, le quattro ultime carrozze del convoglio si erano fermate sui binari all’inizio del fatale ponte, evitando così altri feriti e altri morti fra i passeggeri. Sul posto ristagnava la nebbia alla quale si vuol far risalire le cause del disastro in base a testimonianze oculari, infatti, il convoglio aveva imboccato il ponte a forte velocità (si dice oltre gli 80 km orari) nonostante fosse obbligatorio il rallentamento sino a scendere a 10 km orari onde poter con sicurezza percorrere la pericolosa curva ad “esse” del ponte. Dunque, il macchinista, appunto perché smarritosi nel mare di nebbia, non avrebbe avvertito di trovarsi già in prossimità del pericoloso punto, per cui non aveva tempestivamente ridotto la marcia del convoglio.
Altri viaggiatori hanno riferito di aver sentito una brusca scossa in due riprese quasi fossero state prodotte da brusche frenate azionati dal macchinista purtroppo tardi, quando cioè si era reso conto della gravità della situazione.
“Spinsi da parte Vacchini e azionai la rapida”. Con questa frase, pronunciata durante il suo interrogatorio, l’aiuto macchinista Andrea Giuliano ha dato una più precisa causa tecnica del deragliamento, svelando che esso forse è stato provocato anche dalla violenta frenata in curva, la quale ha fatto saltare il treno sul binario facendolo uscire dalle rotaie.
Per incarico del procuratore della Repubblica Volterra, che condusse l’inchiesta, al suo capezzale si è recato il giudice istruttore Petrosino del Tribunale di Monza.
Al magistrato l’aiuto macchinista ha riferito che da parecchi mesi percorreva la linea Sondrio-Milano in coppia col Vacchini e che pertanto entrambi conoscevano bene il percorso. Il giorno della sciagura il macchinista Vacchini gli cedette la guida del locomotore da Sondrio a Lecco, nel tratto cioè in cui il convoglio è un accelerato. A Lecco, dove il treno 341 diventa un diretto sino a Milano, la guida fu presa dal Vacchini. Si noti che questo è consentito dal regolamento ferroviario.
«La nebbia era fittissima – ha raccontato Andrea Giuliano – Avvicinandosi a Milano si infittiva sempre di più. Dopo Usmate, ultima fermata prima di Monza, la visibilità era ridotta a pochi metri».
Da qui in avanti il racconto si fa altamente drammatico. Sono i tragici minuti vissuti da due uomini, uno dei quali, il macchinista Piero Vacchini di anni 59, abitante a Milano è morto, mentre sull’altro si addensava la prospettiva di una grave responsabilità. L’origine di essa avrebbe dovuto risalire unicamente al defunto Vacchini che non ridusse in tempo la velocità del treno non avendo visto i segnali di rallentamento.
«I segnali si vedevano appena — ha proseguito Andrea Giuliano —. Dopo Arcore la velocità del treno era sui 95. Per vedere meglio Vacchini sporgeva la testa dal finestrino. Io ero a sinistra, a mia volta tenevo gli occhi fissi nella nebbia per scorgere i segnali. Ad un certo momento credetti d’intravvedere il primo segnale di rallentamento, quello collocato a 1200 metri prima del ponte. Lo dissi a Vacchini, ma mi rispose che era troppo presto, che eravamo ancora indietro. Mentre discutevamo vidi il secondo segnale, duecento metri prima del ponte. Allora impulsivamente, con un urto lo spinsi da parte e manovrai la leva della rapida. Il treno rallentò, ma subito dopo, ebbe un sobbalzo e ci fu il finimondo ».
La mattina fu rigata di sangue dagli urli delle sirene lugubri e continue delle autoambulanze e delle auto dei pompieri. La catastrofe era immane: la violenza dell’urto aveva straziato e fatto scempio dei corpi di decine e decine di persone che giacquero inanimate e livide di morte, mentre si levavano gli urli di spavento e i gridi e i lamenti dei feriti e dei moribondi. L’ombra del lutto passò entro la nebbia sulla città. Pareva che ciascuno intuisse la immensità della sciagura e si raccoglieva in sé senza altro domandare. Il convoglio è rimasto sulla scarpata come un mostro che si fosse autodistrutto: vagoni rovesciati entro chiazze di sangue, tombe di ferro contorte ancor più enormi nella loro pesantezza di mastodonti ora che giacevano inerti senza più la lievità che dà loro la velocità nel vento. I corpi strappati agli artigli di ferro venivano composti dalle mani guantate di gomma, i resti venivano raccolti tra le macerie, fra le grosse molle a spirali fra le pietre e il terriccio.
Diciassette vittime innocenti cadute nel dimenticatoio. A cinquant’anni dal disastro ferroviario di viale Libertà nessuno (non il Comune, neppure Trenitalia) avevano ancora ricordato i morti del terribile incidente. Diciassette morti e 120 feriti dispersi nelle pieghe del tempo, che tutto copre, in questo caso, anche il ricordo.
Soltanto il 5 gennaio del 2011, dopo cinquant’anni sul ponte è stata posta finalmente una targa ricordo del terribile incidente.
Giancarlo Nava