Sono proprio di Lea Garofalo quei 2.812 resti, in particolare frammenti ossei, ritrovati in un tombino del terreno di via Marelli, a San Fruttuoso di Monza, dove il cadavere della testimone di giustizia calabrese uccisa a novembre del 2009 fu bruciato in un bidone. Quei resti «sono da identificare in Lea Garofalo»ha detto in tribunale a Milano – dove è in corso il processo di appello contro Carlo Cosco e altri cinque imputati, tutti accusati di omicidio – l’ antropologa e patologa forense Cristina Cattaneo, consulente della Procura nel processo.
Resti ossei «perfettamente coerenti» con il racconto reso dal pentito Carmine Venturino, l’ex fidanzato della figlia della donna, Denise, a sua volta condannato all’ergastolo. Una prima conferma che quei resti appartenessero alla donna era venuta dalla stessa Denise, che aveva riconosciuto alcuni monili appartenenti alla madre che si erano parzialmente salvati dalle fiamme.
Venturino, intervenuto nel processo, ha tra l’altro racocntato che Cosco, «un ’ndranghetista», dopo aver ucciso la Garofalo, avrebbe voluto eliminare anche la figlia perché accaduto l’omicidio la ragazza stava parlando con gli investigatori. Venturino ha detto di voler raccontare la verità per amore di Denise: «con la quale ho trascorso tre anni della mia vita. Voglio che sappia come sono andate le cose». E Denise, parte civile, sotto protezione, quelle parole le ha ascoltate. Nascosta in un corridoio vicino all’aula.