Monza – “Neppure nelle favole più raccapriccianti l’orco che mangia i bambini viene raffigurato con tinte così fosche e sinistre come Caporali”. Il paragone è quello tracciato dagli avvocati Donatella Rapetti e Raffaele Della Valle in rapporto al ritratto che, secondo i due legali, emerge nella sentenza di primo grado emessa dalla Corte d’Assise di Monza nei confronti di Nazareno Caporali, il broker 47enne di origini livornesi, condannato all’ergastolo per l’omicidio della moglie Lorena Radice, 45 anni, manager ed ereditiera dell’omonima impresa di eliche. I legali di Nazareno Caporali, in questi mesi, hanno lavorato per preparare il ricorso in Appello, con il quale intendono ribaltare la dura sentenza emessa dal tribunale monzese a gennaio di quest’anno. La vicenda è nota. Il corpo di Lorena era stato trovato il giorno di Santo Stefano di tre anni fa dal figlio di 10 anni. La donna era a letto con un sacchetto sul volto. Un suicidio? Non per carabinieri e magistratura che misero sotto inchiesta il marito, il quale aveva ammesso una violenta lite con la moglie.
L’accusa era di aver soffocato la moglie e aver messo in scena il suicidio della stessa, facendo consapevolmente trovare il corpo della madre in quelle condizioni al figlio. Un comportamento definito dai giudici di primo grado come “l’ulteriore delitto commesso da Caporali”, dipinto come un “feroce assassino”. I difensori però non ci stanno: “la condanna di Caporali trae origine non dalla riflessione e dalla deduzione delle carte processuali, bensì dall’intuzione, o peggio ancora da una profonda insofferenza per il condannato, disprezzato e svillaneggiato ingiustamente”. I giudici dell’Assise si sarebbero fatti fuorviare da un pregiudizio nei confronti del “Caporali uomo”.
Nel merito del processo, i difensori chiedono invece una nuova perizia che accerti la natura delle tracce di sangue ritrovate su un pezzo di sacchetto di plastica trovato sotto il letto della vittima. Secondo la difesa si trattava di sangue mestruale, e non di sangue della ferita che Lorena aveva sotto il labbro superiore. Un accertamento che il perito nominato dalla Corte, il professor Leopoldo Basile “non ha approfondito sotto il profilo tecnico scientifico”. Altre critiche sono state rivolte alle conclusioni del superperito. La difesa è tornata a ripercorre inoltre la tesi del suicidio nel sacchetto, e del vapore acqueo espirato dalla vittima, che “non lascia tracce biologiche” (le scarse tracce di dna nel sacchetto era una delle prove cardine a carico di Nazareno), oltre a contestare l’intero impianto accusatorio sull’ora della morte, la temperatura del corpo di Lorena, e in generale su tutta la dinamica dell’omicidio.
f. ber.