Monza – Un giorno d’autunno, due donne poco pratiche della città – o di quel borgo che ne ha almeno l’aspetto se non il nome: una fa strada, ostentando coraggio e sicurezza, per rassicurare la figlia; l’altra segue, circospetta e timorosa, cammina stretta ai muri, levando di tanto in tanto uno sguardo piuttosto stupito. Certo, ad aprire le pagine dei “Promessi Sposi”, la scena non si trova: è una delle tante che non sopravvive alla instancabile riscrittura del romanzo, cui Alessandro Manzoni dedicò quasi un ventennio.
Del resto però non si trovano neppure più i muri, i cantoni, le stradicciole, i palazzi, che il nuovo panorama impresse negli occhi della giovane venuta dai monti. «Girando di via in via, e ad ogni rivolta di canto trovando ancora vie e case, era Lucia colpita da una meraviglia mista di un non so quale afa, come chi vede una brutta grandiosità ». Ma come i Promessi Sposi conservano del Fermo e Lucia, loro avo, le tracce, Monza conserva di quei luoghi e di quei passi piccoli indizi, che il lettore – o il turista manzoniano – non smettono di cercare, dopo aver magari indirizzato gli occhi a quel ramo del lago di Como, al sentiero di don Abbondio, alla semplicità del villaggio di Pescarenico. Prima che a Lucia e Agnese – due donne poco pratiche della città, pur con tutto l’ostentato coraggio della madre – a un’altra fanciulla s’era serrata la gola, osservando (quella volta dal finestrino di una signorile carrozza) le strade, i palazzi.
«All’entrare in Monza, Gertrude si sentì stringere il cuore», scrive Manzoni al capitolo decimo della Quarantana. Era stato, allora, il terrore del futuro – il futuro della Monaca – che si spalancava insieme alla città. Monza; Monza che il lettore e l’autore riconoscono solo da pochi accenni, prudentemente centellinati dall’anonimo redattore del manoscritto da cui Manzoni attinse lo scheletro della vicenda. Monza che compare così sulla scena (di nuovo attingendo al Fermo a quel suo passo più spontaneo e genuino, che sopravvisse, ma scolorito forse rispetto al precedente): «Un borgo nobile e antico, al quale di città non mancava che il nome; altrove parla del Lambro che vi scorre: altrove ancora dice che v’era un arciprete: con queste indicazioni non v’ha in Europa uomo che sappia leggere e scrivere, il quale tosto non esclami: Monza».
Città manzoniana: la Pro Monza propone sul suo sito web un percorso per coglierne gli scorci rimasti. Per esempio partendo dall’ex convento dei Cappuccini, dov’erano dirette Agnese e Lucia, oggi tra via Marsala e via Mauri. Ricordato affiggendo una targa: «Questo luogo già convento dei Cappuccini fu immortalato dall’arte dei Promessi Sposi. Rifugio di deboli difesa di oppressi esaltazione di umili su prepotenze e tempi vindice la benefica fede ai trionfi avvezza». Accompagnate poi al monastero, Agnese e Lucia passarono accanto ai resti del forte visconteo («Quando fu vicino alla porta del borgo, fiancheggiata allora da un antico torracchione mezzo rovinato, e da un pezzo di castellaccio, diroccato anch’esso, che forse dieci de’ miei lettori possono ancor rammentarsi d’aver veduto in piedi, il guardiano si fermò») di cui pochissimo oggi sopravvive in via Azzone Visconti e nulla purtroppo in largo Mazzini.
Al convento le due donne arrivarono, quel giorno l’autunno, camminando forse lungo quello che oggi si chiama vicolo della Signora. Della prima prigione di Marianna de Leyva – prima cioè che fossero scoperti i delitti e gli scandali e il buio la inghiottisse per gli anni in cui fu murata viva – il tempo ha lasciato poco, ma qualcosa. La chiesa di San Maurizio sorge là dov’era quella di Santa Margherita, attorno alla quale si sviluppava il complesso, già rimaneggiato nel Settecento e sostituito definitivamente da un condominio negli anni Cinquanta del Novecento, nella parte del chiostro. Poi le cantine, che un’edificio oggi privato conserva (la Meregalli vini), abitualmente non visitabili. Luoghi – il convento, la vicina casa di quell’Egidio che nella storia fu Gian Paolo Osio – di una passione scellerata che ben presto si era tinta di nero. Per ricostruire la mappa di quei delitti – dell’omicidio di Caterina Cassini da Meda, colpevole di aver solo accennato a una imminente confessione degli abomini cui aveva assistito – è ancora al Fermo e Lucia che conviene rivolgersi.
Qui Manzoni è più preciso: anche su consiglio dei suoi primi lettori – primi dei venticinque – l’autore ripensò infatti la zona della Monaca, che travasò nei Promessi libera dalle sue pagine più atroci. «Poco distante dal paese, in riva al Lambro, una dopo l’altra le trafisse con un pugnale, gittando l’una nel Lambro, e l’altra in un pozzo rasciutto ed abbandonato nei campi». Dove al racconto è mancato il puntiglio geografico, è intervenuta la tradizione popolare: e il pozzo è il pozzo di Velate milanese (dove pare insieme alla conversa salvata da morte certa venne estratta la testa della prima vittima dell’Osio) e la riva del Lambro è il Lambro che scorre accanto al Ponte delle Catene, vicino al viale dei Sospiri.
Alle soglie di questo convento aveva indugiato Alessandro Manzoni, prima di accompagnare Lucia e Agnese di fronte alla Monaca: «Il guardiano si fermò, e si voltò a guardar se gli altri venivano; quindi entrò, e s’avviò al monastero; dove arrivato, si fermò di nuovo sulla soglia, aspettando la piccola brigata». A questa soglia s’era fermata anche la voce di Geltrudina: «Al punto di proferir le parole che dovevano decider quasi irrevocabilmente del suo destino, esitò un momento». Benché altri avessero lodato per lei le gioie e le grazie di una vita che altri, per lei, avevano scelto. E «chi lodava il cielo di Monza, chi discorreva, con sapore, della gran figura ch’essa avrebbe fatta là».
Letizia Rossi