Monza – «Detenzione con modalità disumane, equiparabili alla tortura ». Il tribunale di sorveglianza di Milano accoglie il ricorso presentato dall’avvocato Alessandro Maneffa (foro di Milano), per conto di un quarantenne siciliano di Gela, Emanuele Greco, condannato a 15 anni per associazione mafiosa e sequestro di persona, e manda la questione alla Corte Costituzionale, sollevando dubbi sull’opportunità di far scontare una pena in «condizioni di inumanità» nelle celle del carcere monzese di via Sanquirico. Per rendersi conto dei disagi, il magistrato ha voluto verificare di persona le dettagliate descrizioni della realtà penitenziaria monzese, in cui dovrebbe trascorrere i prossimi 15 anni il condannato il siciliano di 40 anni, che ha chiesto il differimento dell’esecuzione della pena.
La cella – La pena dovrebbe essere eseguita nel reparto alta sicurezza in «una cella di circa nove metri quadri», prevista per due persone, ma destinata ad «accoglierne 3». Letto a castello, terza branda, armadio (non sufficiente per i vestiti, che devono andare sotto il letto), 3 sgabelli, alcune cassette-dispensa, frigo, tv: il risultato è che i 3 occupanti non possono stare tutti in piedi contemporaneamente. Niente suppellettili, tanto che spazzolino e dentifricio vengono posizionati in mensole ricavate dai pacchetti di sigarette.
Qui si scoppia – A Monza si sta stretti: 670 detenuti su una capienza di 364 posti. Di questi 309 sono persone straniere. Lo dicono i dati diffusi due mesi fa dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria secondo i quali, contando i 19 istituti di pena della Lombardia, si registrano 9.307 i detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.051 posti. Quattromila gli stranieri sul totale della popolazione detenuta, e solo 84 persone in semi libertà. In attesa di giudizio risultano 3.746 detenuti, mentre sono 5.270 i condannati definitivi. Il sovraffollamento è maggiormente sentito nelle carceri di Bollate, San Vittore e Opera.
«Inumanità» – Ma sulla scia delle pronuncia di un mese fa del tribunale di Venezia sul caso di un detenuto a Padova, ora il tribunale di Milano rimanda gli atti alla Consulta partendo proprio dalla drammatica realtà carceraria di Monza. Scrive il tribunale di sorveglianza (presidente Maria Luisa Fadda): «ogni pena eseguita in condizioni di inumanità non può mai dispiegare la sua finalità rieducativa, poiché la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona», e perciò «deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa».
I giudici, nel provvedimento, prospettano una soluzione come nei paesi del nord Europa, dove si evita la detenzione fino a quando non si trova un posto libero, o come negli Stati Uniti dove il 23 maggio 2011 la Corte suprema ha riconosciuto la correttezza dell’operato della Corte federale della California, che aveva ordinato al governatore di rilasciare addirittura 46.000 detenuti per limitare di un terzo, e far scendere al 137,6% (comunque ben al di sopra della massima capienza) il tasso di occupazione delle carceri. O, ancora nel vecchio continente, in Germania, dove il 22 febbraio di due anni fa, la Corte Costituzionale ha stabilito il principio della superiorità del diritto alla dignità della persona rispetto all’esecuzione della pena.
Federico Berni