Da Villasanta a Bussia SopranaL’arte al Nebbiolo di Casiraghi

Villasanta – «Ma te see matt? », gli deve aver chiesto quel giorno suo padre. Lui, il Ross, veniva dalla terra. E aveva lavorato una vita per tirare fuori la famiglia dai campi. La trattoria del Canto, a Villasanta, la vendita dei vini e dell’acqua casa per casa, o ai ristoranti. Ma suo figlio Silvano aveva altro per la testa. A lui la terra piaceva. Soprattutto quella da vigna. Quella che ora, partito da Villasanta, gli fa produrre alcuni dei migliori Barolo d’Italia. Premiati due anni fa a 90/100 dalla guida Usa di Parker – la bibbia dell’enologia mondiale – e con i due bicchieri da Gambero Rosso e Slow food per «Vini d’Italia».

La prima cascina. Bussia Soprana, comune di Monforte d’Alba. Uno dei cru del Barolo, se esistessero i cru. È lì che all’inizio degli anni Novanta Silvano Casiraghi ha comprato la prima cascina. Voleva la terra, voleva fare il vino. Erano vent’anni che lo vendeva, distributore di cantine che hanno poi fatto la storia dell’enologia nazionale, come Ca’ del Bosco, o importatore da Bordeaux e Bourgogne. «Diciamo la verità: io a scuola facevo un po’ di casino –racconta ridendo- ‘Mej che te vee a lavurà’ mi ha detto mio padre. Solo che al bar, in trattoria, mi arrabbiavo. E allora sono andato a vendere». Poi la scuola l’ha recuperata di sera, con il diploma e un’iscrizione all’università soffocata dal lavoro, ma intanto la sua strada era già chiusa in bottiglia. Poco meno che maggiorenne, a metà anni Sessanta, la Lombardia inizia ad andargli stretta. Va in Piemonte, a cercare il vino, proprio mentre l’Italia scopriva come si fa a farlo bene.

Passaggio a nord. Da lì alla Francia il passo è breve, e inevitabile. Incontra il Pinot noir borgognone – l’amore di una vita, vigna difficile, faticosa, una sfida ogni stagione, come piace a Casiraghi – e i châteaux, passando per Alsazia, Sauternes, Armagnac. Non si accontenta: dal ’75 porta nel resto d’Italia i vini della cantina di Terlano, e fino ad allora i grandi altoatesini li avevano bevuti solo là, intorno alla Winestrasse. Intanto scavalca l’oceano e va a vendere negli Stati uniti. «Ma a me piaceva la terra, non c’era niente da fare. E poi era lo sviluppo naturale, una sfida. ‘Ora li faccio io’, mi sono detto. Ma è sempre così: se non ci si muove, se non si cambia e non si innova, si muore». Bussia Soprana, cru di Barolo, gennaio 1992. Nascono il Barolo Bussia, il Dolcetto e la prima Barbera. Un anno dopo è la volta della Barbera Vin del Ross, da vigne di cinquanta o settant’anni di età, passato in barrique: il Ross è suo padre, rosso di capelli e amante del rosso corposo, «non quello che girava prima in Lombardia, sempre mosso: a lui piaceva quello fermo, potente, come il Vin del Ross, e l’ho dedicato a lui». Intanto delle bottiglie di Casiraghi si erano accorti in tanti: le guide statunitensi, poi Luigi Veronelli, e ancora Marco Gatti. Nel 1995 all’azienda si aggiungono altre due cascine, nel 1998 ancora due, tutte affidate alle cure e alle mani sapienti di Lelio Cavallo e Angelo Schellino.

Bussia e gli altri. Arrivano il Langhe, il Moscato, uno spumante, il Nebbiolo, un Langhe bianco, altri Barolo fino ad arrivare a quattro: Bussia, Mosconi, del Colonnello, Gabuti della Bussia. Intanto non ha smesso di crescere: da cinque anni compra le uve in Trentino e imbottiglia dal Teroldego al Müller, per arrivare al Gewürztraminer, l’aromatico di Termeno. «E poi, sarà la volta dell’Abruzzo». Quello che fa e quello che vende, con un catologo di distribuzione che conta 180 vini italiani, più Francia e qualcos’altro. «Dopo tre o quattro anni difficili, il mercato si sta riaprendo», raccontava Casiraghi due anni fa, prima del crollo delle borse, chiudendo la vendemmia 2006 dopo un’estate passata a diradare e mesi a guardare come andavano i grappoli uno a uno. «Perché il grande vino – diceva allora e direbbe oggi – si fa in vigna».
Massimiliano Rossin