Scompenso cardiacoRiuniti in cattedra

Individuare i soggetti più a rischio di scompenso cardiaco, per poter dedicare loro maggiore attenzione e terapie più aggressive: è questo lo scopo dello studio «David-Berg», da poco concluso e presentato in anteprima agli Ospedali Riuniti.
Scompenso cardiacoRiuniti in cattedra

Individuare i soggetti più a rischio di scompenso cardiaco, per poter dedicare loro maggiore attenzione e terapie più aggressive: è questo lo scopo dello studio «David-Berg», da poco concluso e presentato in anteprima agli Ospedali Riuniti.

I risultati definitivi saranno diffusi nei prossimi mesi in occasione dei più importanti congressi di Cardiologia, a cominciare dall’ European Heart Failure Association Meeting 2010, in programma a Berlino dal 29 maggio al 1 giugno. Lo studio è il frutto del lavoro congiunto tra medici dei reparti di Cardiologia e di Medicina cardiovascolare degli Ospedali Riuniti di Bergamo e medici di Medicina generale dell’Asl di Bergamo, zone di Osio, Verdello e Mozzanica. Accanto ai Riuniti, la Fondazione Credito Bergamasco che ha finanziato il progetto.

«Lo studio è stato possibile grazie al sostegno della Fondazione Creberg, che si conferma tra i maggiori benefattori degli Ospedali Riuniti, per potenziare l’attività di ricerca e sviluppare nuove armi per prevenire un male che purtroppo nella nostra società è in costante crescita. Questo studio non è solo un esempio di proficua collaborazione tra ospedale e società civile, ma anche la riprova dei benefici che derivano ai pazienti dalla collaborazione tra medicina specialistica e medicina del territorio. Si tratta di professionisti che hanno a cuore lo stesso obiettivo, il benessere dei pazienti, e che possono – collaborando – moltiplicare l’effetto dei rispettivi contributi». Così il direttore generale degli Ospedali Riuniti Carlo Bonometti ha introdotto gli interventi che hanno illustrato nello specifico la ricerca epidemiologica.

«Naturalmente, per permettere alla scienza medica di svolgere il proprio lavoro in modo sempre più efficace e veloce sono necessarie risorse e finanziamenti adeguati – ha aggiunto Cesare Zonca, presidente della Fondazione Credito Bergamasco -. Questo principio è stato ben recepito dalla nostra Fondazione che da anni sostiene iniziative di rilievo nel settore della sanità e della ricerca medico-scientifica. Basti pensare – con riferimento agli Ospedali Riuniti di Bergamo – ai microscopi operatori donati all’unità di Otorinolaringoiatria, all’iniziativa oggi illustrata conseguente alla convenzione siglata a favore del Dipartimento Cardiovascolare, nonché all’attività del CeLiveR, centro ad alta specializzazione impegnato nello studio delle neoplasie del fegato e delle malattie delle vie biliari oltre che nell’applicazione delle terapie cellulari in epatologia e da ultimo alla donazione, a beneficio delle unità di Senologia ed Anatomia Patologica, dell’apparecchiatura medicale GeneSearch, strumento dedicato per la corretta diagnosi e la cura del tumore al seno. La nostra provincia si colloca in una posizione privilegiata per quanto riguarda l’alta qualità dell’assistenza sanitaria. Questo importante traguardo, raggiunto grazie all’elevata professionalità delle équipes mediche, rappresenta una ricchezza che va preservata, tutelata e potenziata, grazie anche all’apporto di istituzioni private vicine al territorio, quali la nostra Fondazione».

A partire da una popolazione di 13.625 assistiti, che fanno riferimento a tre studi associati di Medicina generale di Mozzanica, Osio Sotto e Verdello, sono stati selezionati 620 pazienti di età compresa tra i 55 e gli 80 anni ad alto rischio cardiovascolare, ma non noti per scompenso cardiaco. Sei specialisti della Cardiologia e della Medicina cardiovascolare degli Ospedali Riuniti da settembre 2008 a giugno 2009 hanno sottoposto negli studi medici sul territorio, questo gruppo di pazienti a rilevazione della pressione arteriosa, elettrocardiogramma a 12 derivazioni, ecocardiogramma e prelievo ematico per il dosaggio del BNP.

I dati raccolti sono stati successivamente elaborati dall’Istituto di Fisiologia clinica del CNR di Milano. Doppio il risultato raggiunto dallo studio. Da un alto l’analisi dei dati ha evidenziato un’elevata prevalenza di disfunzione ventricolare nei soggetti a rischio cardiovascolare, che richiederebbero un’attenzione maggiore in termini di diagnostica preventiva e di terapia farmacologica. Dall’altro lo studio ha evidenziato che il valore di BNP – un ormone liberato dal cuore in situazioni di scompenso e rilevabile con un semplice prelievo di sangue – permette di selezionare ulteriormente i pazienti a rischio, consentendo di sottoporre ad ecocardiogramma solo coloro che presentano un’elevata probabilità di disfunzione ventricolare.

«Ciò che ci ha spinto a condurre questo studio – ha spiegato Antonello Gavazzi, direttore della Cardiologia degli Ospedali Riuniti – è stata la mancanza in Italia di dati riguardanti la prevalenza di DSVA, la disfuzione ventricolare sinistra asintomatica, noto precursore dello scompenso cardiaco, sia di tipo sistolico che diastolico, e l’assenza di elementi considerati con chiarezza predittori di DSVA. La ricerca ha dimostrato che la DSVA ha una prevalenza elevata nella popolazione ad alto rischio cardiovascolare, con un 7,6% di disfunzione sistolica e un 22,6% di disfunzione diastolica. Inoltre in presenza di valori bassi di BNP è possibile escludere una disfunzione ventricolare nel 96% degli uomini e nel 100% nella popolazione femminile. Questo per noi significa avere a disposizione degli indicatori che ci permettono di selezionare i pazienti maggiormente a rischio di sviluppare una malattia grave come lo scompenso cardiaco».

«Lo studio ci ha restituito dati originali molto precisi e pertanto molto utili nella lotta allo scompenso cardiaco – ha commentato Michele Senni, responsabile della Medicina Cardiovascolare degli Ospedali Riuniti -, soprattutto per i medici di Medicina generale, che sono in genere il primo contatto dei pazienti, e che possono quindi individuare quelli più a rischio tra i loro assistiti. Lo scompenso cardiaco è la più frequente diagnosi medica che porta al ricovero in ospedale ed è in costante aumento. Ogni anno si registrano dai due ai tre nuovi casi di scompenso cardiaco ogni mille abitanti. Tra coloro che hanno più di 65 anni e meno di 75 questa incidenza cresce del 10%. Per gli ultra 75nni si registrano il 25-30% di nuovi casi ogni mille abitanti. Nel nostro ospedale registriamo ogni anno un costante aumento degli accessi per scompenso cardiaco: basti pensare che nel 2000 questa diagnosi riguardava 990 pazienti, saliti a 1210 nel 2008».

«La caratteristica peculiare di questo studio è stata la partecipazione attiva dei medici di Medicina generale che hanno messo a disposizione non solo le loro strutture ambulatoriali e il loro personale di studio – ha commentato Alessandro Filippi, medico di medicina generale -, ma soprattutto la profonda conoscenza della popolazione da loro assistitia, le informazioni dei loro database e il rapporto di fiducia sviluppatosi tra medico e paziente. L’adesione della popolazione è stata infatti elevatissima, così come il livello di gradimento espresso dai pazienti per poter usufruire di un approfondimento diagnostico direttamente nell’ambulatorio del loro medico. Il ritorno d’informazioni cliniche da parte dei cardiologi, diretto ed immediato, è stato poi prezioso per meglio tutelare la salute dei pazienti che hanno aderito al progetto».

Gli Ospedali Riuniti sono stati il primo ospedale italiano nel 2002 a dare vita a una unità dedicata alla cura di questa patologia, che prima veniva gestita in parte in Medicina e in parte in Cardiologia. In realtà l’approccio migliore sta in una sintesi virtuosa tra queste due specialità. «La nostra Medicina cardiovascolare è uno degli esempi di applicazione del concetto di organizzazione dell’attività ospedaliera per intensità di cura che caratterizzerà il nuovo ospedale – ha spiegato il direttore sanitario degli Ospedali Riuniti, Claudio Sileo -. L’Unità è composta in egual numero da internisti e cardiologi, che lavorano insieme per curare il paziente non solo per la specifica patologia cardiologica che ne ha determinato il ricovero, ma tenendo conto del quadro complessivo e dei suoi bisogni clinici e assistenziali. Il risultato è stata una significativa riduzione della mortalità e della durata della degenza».