Manuel Antonio Bragonzi è nato nel 1976 a Sant’Elena, in Cile. Vive in Italia da quando aveva 8 anni, adottato da una coppia che lo abbracciò per la prima volta in un orfanotrofio, dove Manuel arrivò dopo sofferenze e drammi (la scoperta dell’omicidio della madre), così pesanti da farlo scappare, a pochi anni, nei boschi, in totale solitudine. In molti probabilmente sapevano perché non avesse una mamma, e perché vivesse insieme a un uomo che chiamava nonno ma in realtà era un estraneo. Un uomo che nascondeva un segreto sconvolgente sul passato di quel bambino e di sua madre. Un segreto di cui Manuel aveva perso ogni ricordo. Quando la verità riemerge da quella rimozione traumatica, a lungo ruscelli e cespugli accolgono Manuel come una famiglia, quella che aveva perso, fino a quando il bambino non viene ritrovato in pessime condizioni. Una storia, intensa e unica, raccontata nel libro “Il bambino invisibile”, scritto proprio da Bragonzi con il giornalista Marcello Foa, oggi presidente Rai, nel 2012. Ed è stato solo dopo quel libro autobiografico che Bragonzi, paradossalmente, ha avuto per la prima volta la percezione del complesso mondo adottivo e di tante situazioni difficili di ragazzi come lui.
Oggi Manuel, 42enne scenografo e regista, ha un nuovo obiettivo ed è Anfad, Associazione nazionale figli adottivi, nata solo lo scorso 7 febbraio. Cresciuto a Milano, Bragonzi è diventato brianzolo diversi anni fa, quando si trasferì a Lentate. Oggi si è spostato di poco, a Novedrate, ma il suo impegno gravita comunque anche su Monza e la Brianza. Anfad, di cui il regista è presidente, intende infatti riunire figli adottivi adulti e minorenni e promuovere percorsi di sostegno con esperti per quanti di loro si trovano in difficoltà, magari anche nell’affrontare il disagio per episodi di razzismo più violenti e più frequenti.
«Saremo accanto a tutte le associazioni già presenti – rimarca Bragonzi – ad esempio, “Genitori si diventa”, per lavorare insieme e guardare la realtà adottiva sotto un altro punto di vista, quello dei figli». «Il 90% di noi figli adottivi – continua il presidente – vive difficoltà, non serve negarlo e questo a prescidere dall’atteggiamento che la società ha nei nostri confronti. È proprio una questione emotiva». Certo, diventare bersaglio dell’odio altrui, talvolta, complica ancora di più le cose. «La mia prima esperienza di razzismo fu l’anno dopo il mio arrivo in Italia, quando fui preso di mira da una banda di ragazzi del mio quartiere. Oggi la situazione è peggiorata, certo, anche nei confronti dei più piccoli. Ma non è il razzismo a darmi fastidio, quanto l’intenzione precisa di offendere l’altro. Oggi il clima politico ha dato voce a tanti, adulti, che prima non l’avevano e si sentono forti solo nell’attaccare chi, ad esempio, ha il colore della pelle diverso dal loro».
Come spiegare, allora, tanta violenza verbale e talvolta persino fisica? «Quando ero piccolo e mi insultavano perché straniero, ero stato preso di mira da una banda di bulletti del quartiere dove vivevo con i miei genitori – ricorda il regista brianzolo -. Non conoscevo ancora la lingua italiana e allora, per reagire, picchiavo. La mia violenza fisica di allora era dettata dall’incapacità di replicare, a parole, alla violenza verbale. La stessa cosa accade oggi: chi attacca gli stranieri non ha strumenti per replicare con intelligenza e allora utilizza l’insulto, la violenza».Ma per Bragonzi, prima di tutto, anche prima di ogni possibile forma di razzismo, è necessario cambiare paradigma: «Un figlio è solo figlio, non è un figlio adottivo. La nostra mission, come nuova associazione, è proprio quella di cambiare questa idea.E già il tal senso cambierebbe molto. In primo luogo per noi, figli». «Non siamo un problema – conclude Bragonzi – siamo un dono. E dobbiamo essere guardati come tali. L’associazione è aperta ai figli, ma anche ai genitori. Tutti in cammino verso questa direzione».