Autodichiarazioni. Ma quindi dire la verità non è sempre obbligatorio?

Dopo le sentenze sui provvedimenti Covid la richiesta di un lettore con un caso di falsa dichiarazione. Risponde l’avvocato Marco Martini del Foro di Monza
Report dichiarazione - foto mrsiraphol/it.freepik.com
Report dichiarazione – foto mrsiraphol/it.freepik.com

Egregio avvocato, ho letto sul Vostro giornale il commento dell’avv. Reno Grillo alla sentenza del Tribunale di Reggio Emilia ed ho anche visto su internet una notizia con riferimento ad una sentenza di Milano che ha assolto l’imputato dal reato allo stesso contestato, sempre con riferimento alla questione della autocertificazione.

Ho a mio carico un procedimento perché, nella dichiarazione resa quale inquilino di un alloggio popolare, avrei errato nell’indicare il reddito complessivo del nucleo familiare e quindi avrei ottenuto il detto alloggio formando una dichiarazione falsa. Posso pensare che le due sentenze sopra ricordate siano applicabili al mio caso? Cosa ne pensa?

LEGGI I Dpcm sono illegittimi. Posso violare le restrizioni dunque? Attenzione

Giova premettere che si tratta di un argomento, come dire, spinoso, atteso il rilievo che si da, sugli organi di stampa, ogni volta che si parla di questo tema.

E’ altresì evidente, sempre in via preliminare, che non spetta a chi Le risponde prendere una posizione in ordine alla qualità/natura del provvedimento che ha imposto la necessità dell’autocertificazione, che sia Dpcm o Dl.

Mi si chiede di rispondere e per certo non intendo sottrarmi al quesito, precisando però che provo a darle una risposta solo e soltanto sotto il profilo tecnico giuridico, per quanto mi sia possibile.

Quanto alla prima sentenza, sulla quale, su queste pagine, si è già speso ottimamente il collega Grillo, pronunciata dal GIP di Reggio Emilia, dott. De Luca, il 27 Gennaio 2021, si tratta di una pronuncia ex art. 129 cpp del Giudice che ha rigettato la richiesta di emissione di decreto penale di condanna avanzata dal locale Pm nei confronti di una coppia che aveva attestato, nell’autocertificazione, di essersi allontanate dalla propria abitazione per eseguire degli esami clinici.

In questo caso il Gip di Reggio Emilia ha sostenuto di dover procedere con questa pronuncia sostenendo la illegittimità costituzionale del (dei) Dpcm che si sono susseguiti dall’8.3.2020 in avanti.

Chi Le scrive non sa se questa decisione sia passata in cosa giudicata o se sia stata oggetto di impugnazione da parte del Procuratore di Reggio Emilia o del Procuratore Generale presso la Corte d’Appello di Bologna.

Come noto l’autorità Giudiziaria ha a propria disposizione lo strumento della proposizione di questione di legittimità costituzionale alla Corte Costituzionale, che è organo preposto alla valutazione della conformità della legge rispetto alla Carta.

Nel caso di Reggio Emilia il GIP sostiene che “ … trattandosi di Dpcm, cioè di atto amministrativo, il giudice ordinario non deve rimettere la questione di legittimità alla Corte costituzionale ma procedere direttamente alla disapplicazione dell’atto amministrativo illegittimo per violazione di legge (Costituzionale)…”.

Il tema della disapplicazione di una fonte normativa, ancorché secondaria come il Dpcm, da parte del Giudicante è questione complicata, seppure si tratti di potere lasciato nella faretra dell’Autorità Giudiziaria.

Potremmo ipotizzare che ogni singolo magistrato giudicante possa elevarsi a Giudice delle leggi e non solo dei fatti di reato, con la conseguenza che si creerebbero migliaia di Giudici Costituzionali, ognuno probabilmente con una testa pensante diversa e quindi anche con la possibilità di decisioni diverse e magari contrapposte. Tutto ciò creerebbe una disarmonia interpretativa come conseguenza delle diverse decisioni.

Come ha evidenziato il collega Grillo, ora non si discute più di DPCM ma di DL.

I decreti ministeriali sono atti amministrativi emanati dal Presidente del Consiglio dei Ministri. Formalmente sono atti di secondo di grado, poiché nella gerarchia giuridico-istituzionale sono, come ho detto, di rango inferiore rispetto alla legge.

Le differenze tra il DPCM e il decreto legge sono molte, per quanto riguarda l’iter di formazione e discussione, le forze politiche coinvolte, l’efficacia e la possibilità di impugnare gli stessi.

I decreti ministeriali sono atti che hanno il merito di essere rapidi e quindi particolarmente adatti alle situazioni di emergenza, come nel caso della sars covid 19, però non sono espressione del Parlamento ma solo del governo.

Per quanto mi consti, i DPCM sono impugnabili al TAR del Lazio (non certo dal Giudice, però).

Invece il decreto legge, atteso il meccanismo di conversione in legge, necessita di un successivo confronto parlamentare atteso che deve essere convertito in legge dal Parlamento entro 60 giorni, a pena di decadenza. Il percorso per impugnare è quello del ricorso alla Consulta.

La seconda decisione di cui mi parla è stata assunta dal Gip del Tribunale di Milano, dott.ssa del Corvo, ed ha assolto in questo caso, all’esito del giudizio abbreviato, un imputato il quale aveva sostenuto, mi pare, di doversi recare a lavorare mentre, all’esito di un controllo, nel giorno della autocertificazione o autodichiarazione lo stesso non era di turno (questa la contestazione in fatto).

Se anche la conclusione appare la medesima (il proscioglimento nel primo caso, la assoluzione nel secondo) si tratta di una decisione del tutto diversa, poiché in questo caso il GIP di Milano non ha valutato la contrarietà costituzionale di questo o quel Dpcm, ma ha valutato come non costituente reato la dichiarazione mendace resa dall’imputato.

La decisione, presa dal Gup Alessandra Del Corvo, è stata presa in quanto “un simile obbligo di riferire la verità non è previsto da alcuna norma di legge” e, anche se ci fosse, sarebbe “in palese contrasto con il diritto di difesa del singolo”, previsto dalla Costituzione. Il giudice ha così accolto la richiesta di assoluzione nei confronti del giovane della Procura di Milano. Va peraltro precisato che non si comprende se la richiesta di assoluzione perché il fatto non sussiste avanzata dalla Procura, per come si legge dalla sentenza, sia stata data in ragione delle stesse argomentazioni spese poi dal Giudice o invece perché il difensore aveva prodotto documentazione che attestava in verità, in contrasto con le carte del Pm, che l’imputato stesse svolgendo attività lavorativa.

In ogni caso, secondo questa decisione, l’imputato non potrebbe trovarsi di fronte alla scelta di riferire il falso, per non subire conseguenze, salvo poi finire sotto processo per falso ideologico in atto pubblico oppure riferire il vero ma nella consapevolezza di poter essere sottoposto, al tempo, al reato di cui all’art. 650 C.P., per inosservanza dei provvedimenti dell’autorità penale o, ora, a sanzioni amministrative pecuniarie.

Questa “alternativa” di scelta tra il vero e il falso, chiarisce ancora il Gup, “contrasta con il diritto di difesa” della persona.

Secondo la decisione ricordata, insomma, l’imputato (al tempo indagato) non ha obbligo di dire la verità, poiché si autoincriminerebbe.

La sentenza di Milano cita poi ad esempio, al contrario, di episodi per cui si mantiene la punibilità del fatto, il caso, come il suo, di false autodichiarazioni ai sensi degli artt. 46 e 47 DPR 445/2000, quando rammenta che l’art. 483 C.P. incrimina il privato che attesti al pubblico ufficiale fatti dei quali l’atto sia destinato a provare la verità e cioè quando una norma giuridica obblighi il privato a dire la verità “ … ricollegando specifici effetti all’atto documento nel quale la sua dichiarazione è stata inserita dal pubblico ufficiale…”.

Ne segue che, per quel che attiene al suo procedimento, non mi pare sia utilizzabile il percorso argomentativo speso dal Giudice milanese.

Per il resto, non vi è dubbio che si tratti di una decisione coraggiosa, difficile, per quanto condivisibile sul piano giuridico e che senza dubbio complica non poco la possibilità di utilizzare il c.d. sistema delle autocertificazioni, azzerandone gli effetti penali in caso di quelle difformi dal vero.

Avv. Marco Martini *

* Iscritto all’ordine degli Avvocati di Monza dal 1997. Nato a Vicenza e dal 1984 vive a Monza, ha frequentato il liceo classico Zucchi e si è poi laureato presso l’Università statale di Milano. Socio fondatore della Camera penale di Monza, ha conseguito diploma della Scuola di Alta specializzazione della UCPI; iscritto alle liste del patrocinio a spese dello Stato, delle difese d’ufficio, si occupa in via esclusiva di diritto penale carcerario e societario.