Ancora poche ore e sarà trascorso un anno da quel maledetto 21 febbraio 2020. Me lo ricordo bene, quel giorno. Il clima che sembrava migliorare e volersi lasciare alle spalle l’inverno. Un pranzo fuori, insieme ai colleghi, tratteggiando un bilancio sulla settimana lavorativa appena trascorsa. E, poi, quel messaggio, arrivato improvvisamente su un cellulare: “A Codogno hanno trovato un tizio contagiato dal coronavirus”.
Non sapevamo che, il lunedì seguente, non ci saremmo rivisti in ufficio. Era arrivato lo “smart working”, termine con cui abbiamo, nostro malgrado, imparato a convivere in questi ultimi 12 mesi, con i vari “distanziamento”, “Dpcm” e “lockdown” che hanno stravolto le nostre vite e asfaltato il nostro bisogno di condividere emozioni, dolori e abbracci. “Andrà tutto bene”, dicevamo. Illusi. La mente corre, inevitabilmente, a coloro che, in questo ultimo anno, hanno perso tanto, troppo. Alcuni il bene più prezioso: la vita.
Altri ancora hanno sofferto a causa delle conseguenze più odiose della pandemia, quelle sociali, economiche, psicologiche. Conseguenze che si sono abbattute sui più fragili: dagli adolescenti ai disabili, dagli anziani ai malati per arrivare ai non garantiti. A tutti loro va, in questo anniversario particolare, il nostro pensiero. Con l’auspicio di poterne venire fuori. Il prima possibile.