«Governatore De Luca, sono quella stronza della Meloni». Tiene banco, in questi giorni, il siparietto con cui la premier ha accolto il presidente della Regione Campania, diretto riferimento al termine dallo stesso utilizzato in precedenza nei suoi confronti. Diverse le reazioni: c’è chi gode e chi, invece, si indigna. “Da dove viene questa deriva (con annesso sdoganamento del turpiloquio) del modo di comunicare dei più alti rappresentanti delle nostre istituzioni?”, si chiedono questi ultimi.
La risposta, a modesto avviso di chi scrive, è semplice quanto brutale: da loro stessi. O, per meglio dire, da noi tutti, cittadini di questo sventurato Paese. Per decenni, in preda a un’ubriacatura collettiva di anti-politica e anti-elitarismo, abbiamo magnificato i potenti che si sono dimostrati “vicini al popolo”, quelli che erano o apparivano come “uno di noi”. Abbiamo celebrato i parlamentari in felpa e maglietta al posto dei completi scuri, l’”uno vale uno”, i selfie al mercato o in spiaggia dei leader di partito. Abbiamo, insomma, chiesto a gran voce a chi ci guidava (o si candidava a farlo) di non sembrare migliore di noi. Una richiesta che, nell’era dei social network, si è fatta obbligo e pretesa. E loro, credendo di farci contenti, ci hanno dato quello che volevamo. C’è poco da indignarsi dunque: si raccoglie ciò che si semina.