Monza – Una storia di esodo alla vigilia del Giorno del Ricordo, che cade il 10 febbraio: una storia monzese raccolta da Umberto De Pace nel suo volume “L’esodo di istriani fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra. Testimonianze di cittadini monzesi”, pubblicato da Bellavite. Il racconto della famiglia Pfeifer e di come, dalla Dalmazia, è arrivata a Monza.
Due volte esule
dalla voce di Mario Pfeifer
a cura di Umberto De Pace
Sono nato a Lussinpiccolo, in un’isola della Dalmazia, dove è anche nata mia mamma che si chiamava Alice Lussin. Mio padre, Ervino Pfeifer, è nato a Zara, figlio di un funzionario austro-ungarico nato a Trappano un paesino sulla penisola di Sabbioncello a sud di Spalato. Mia nonna, sempre da parte di mio padre, è nata a Zara ed era una Benzoni, i suoi genitori venivano da Bergamo. Da parte di mia mamma, suo padre Dante Lussin è nato a Fiume. Mia nonna materna, Romana Lergetporer, era nata in Austria a Zell-am-See nel 1883 da una storica famiglia tirolese. Fra i miei ascendenti qualcuno si sentiva austro-ungarico, qualcuno italiano, ma nei miei ricordi tutti sono sempre stati assolutamente aperti a qualsiasi influenza di cultura e civiltà e hanno cercato di convivere nel modo più costruttivo nei vari ambienti: tedesco, slavo e italiano, prima e dopo la Grande Guerra.
A Lussino nel 1918 arriva l’Italia e nell’autunno 1921 arriva mio padre; dopo le scuole primarie a Zara voleva fare la “scuola nautica” e diventare capitano di marina. Papà e mamma si sposarono nel 1928 e il papà si unì così all’azienda di famiglia della mamma che consisteva in uno studio e laboratorio fotografico con negozio. Nel 1936 sono nato io e, dopo di me, i miei due fratelli e mia sorella. All’epoca anche Lussino viveva in regime fascista, seppure abbastanza all’acqua di rose. C’erano alcuni “regnicoli”, funzionari pubblici e del fascio, che dovevano imporre la disciplina, la romanità ed il senso del dovere “fascisti”. Ma io mi chiamo ancora Pfeifer, mentre i miei parenti di Trieste sono diventati Ferri. Forse mio papà, che era un negoziante, non aveva bisogno dello Stato o lo Stato non ebbe la forza di obbligarlo a cambiare nome. I miei avevano il negozio sul lungomare, alla fine del quale c’era la piazza principale del paese e in quella piazza c’era un grande pilone dove sventolava la bandiera italiana. Ogni sera al tramonto tutte le persone presenti, me compreso, dovevano togliersi il cappello e assistere sull’attenti all’ammaina bandiera. Appena iscritto alla prima classe elementare, era l’anno 1942, diventai “figlio della lupa” ma non mi diedero la divisa, né il fucile. Il gerarca convocò solo due “adunanze fasciste” e la seconda andò completamente deserta. Questa è la storia del fascismo che io ricordo nel mio paese. Nei tre principali nuclei abitati dell’isola si usava solo l’italiano, ma nei paesini parlavano croato. Per quello che ricordo, era una convivenza tranquilla e collaborativa. Nell’estate precedente il secondo anno di scuola cominciavo a vedere una cosa strana: stormi di aeroplani che volavano altissimi verso nord, lasciando dietro di se code di fumo bianco. “Ti sa, xè scominziada la guera“ – mi dissero – “E cosa xé la guera?” – chiedevo. Da allora ho cominciato a capire che c’era qualcosa di nuovo nel mondo che si chiamava “guerra”. Doveva essere l’anno 1943, fino ad allora non ne avevo saputo niente. Una mattina vidi uno strano movimento in paese: “Ma cosa fanno?” – mi chiedevo. Al pilone non sventolava più la bandiera. Quando tornai a casa sentii dire: “I ga fato el ribaltòn!”. “Cosa xè el ribaltòn?”. Il giorno dopo in città, il 9 o il 10 settembre, non c’era più un “regnicolo” né civile, né militare. La situazione é durata qualche giorno; un mattino andando ad aprire il negozio con i miei genitori: “Oh, ghe xé una bandiera!”. Ma non era più bianca, rossa, e verde. Era bianca, rossa e blu; era arrivata la prima banda slava. Dopo alcuni giorni scendendo lungo la via vidi che la bandiera , era sempre bianca, rossa, blu, ma i colori erano disposti diversamente. Poi si diffondevano le voci: “Xé arivadi i guai, xé arivadi i novi…”. Risultato: “I li gà copado tuti … e i se ga messo al suo posto”. Ma son sempre slavi. Passa ancora qualche giorno e vedo una terza bandiera bianca, rossa e blu: ”Savé, quei che iera qua i ga tentà de scampar, ma i novi ghe ga tirado indrio le barche e i li ga copadi tuti”. Insomma era iniziata la loro lotta fratricida per fare splendere il sole del comunismo. Quei pochi che ero riuscito a vedere in giro in quel periodo erano l’immagine della miseria, non tutti avevano una divisa. Ma in città, che io sappia, non toccarono niente. Finché un giorno ci fu una nuova bandiera sul pennone, era tutta rossa con al centro un disco bianco contenente una croce uncinata nera: “Xè arivadi i Tedeschi!”. Appena arrivati hanno mandato pattuglie armate in giro per le case a tirar fuori tutti gli uomini e mandarli in piazza, e sono arrivati anche a casa nostra dove c’era anche mio papà che volle portarmi con se. Così ho visto la piazza piena di gente ed il primo carro armato della mia vita. Passarono un po’ di ore e poi ci rimandarono a casa dove mio padre passò il resto della guerra. A Lussino i tedeschi hanno costituito un comando territoriale, dopodiché ci fu una gran calma fino alla fine della guerra, interrotta da qualche sporadico incidente. I tedeschi in paese non hanno fatto niente di ostile, si sono solo difesi in caso di pericolo. Si sentiva parlare delle SS, ma io non ho nessun ricordo di loro interventi. Un giorno mentre noi eravamo in sala da pranzo, ho sentito il rumore assordante di un aeroplano che volava bassissimo e sembrava venisse addosso alla nostra casa, ero così spaventato che rimasi impietrito e scoppiai a piangere, aspettando di morire. Pochi giorni dopo un’altro aeroplano arrivò raso terra e sentimmo un’esplosione. I miei si alzarono di scatto dicendo: “Su presto, fuggiamo prima che ritorni” – e a piedi corremmo tutti fuori dal paese verso l’aperta campagna. L’aereo non tornò, ma vidi quello che era successo: in riva al mare una villa bruciava come un fiammifero, fu uno spettacolo orrendo per me. Ci trasferimmo a Lussingrande, un paese più piccolo, fino alla fine della guerra. Su Lussinpiccolo nel frattempo le incursioni erano diventate abituali e non certo per motivi strategici visto che non si bombardavano le postazioni militari ma proprio il paese. Un solo aeroplano alla volta e sempre di notte. Dal rumore particolare che faceva sembrava sempre lo stesso e in paese era stato soprannominato “Tonin campanela”. Questo è durato mesi. Il giorno dopo un bombardamento, un nostro conoscente ci avvisò che avevano bombardato la nostra casa. Mio padre si precipitò a vedere: la casa, non era distrutta tutta, ma la parte demolita comprendeva le stanze da letto di mia nonna e mia.
Passa altro tempo e vediamo presentarsi al cancello di “Villa Punta”, dove eravamo rifugiati, un motociclista in divisa e dietro di lui un gruppo di tedeschi. Senza chiedere il permesso aprono, entrano in casa e dicono ai miei: “Cari signori, potete andarvene o restare, ma da adesso questa villa é un presidio militare”. La villa era grande e potevamo starci tutti, loro furono gentili con noi e ci portarono anche le caramelle, però papà pensò che vivere in una caserma in tempo di guerra poteva non essere la cosa migliore e traslocammo. Passò un mesetto e in paese si sparse la notizia: ”Savé, stanote xè arivadi i partigiani, i ga asaltado Villa Punta e i ga copado tuti i tedeschi che iera drento!”. Ho saputo anni dopo che in realtà era stato un “commando” inglese.
Con vento favorevole, sentivamo scoppiare le bombe quando bombardavano Zara. E poi, ogni tanto c’era battaglia su qualcuna delle isole vicine, non sempre sentivamo il rumore degli spari, ma di notte si vedeva il percorso delle pallottole traccianti. Nonostante tutto, noi abbiamo vissuto la guerra da spettatori. Finalmente arriva la notizia: “Xe la pase, i ga fato la pase”: tutte le campane a stormo per ore. Non ricordo più se c’era ancora qualche tedesco in paese, se erano scappati o erano stati ammazzati. Il risultato è stato che hanno cominciato ad arrivare in paese i partigiani jugoslavi “liberatori” e a quel punto erano tutti con la stella rossa sulla divisa. Era gente estranea, che veniva ad occupare le nuove conquiste territoriali. Con loro non c’erano stati praticamente rapporti fino a quando non hanno occupato ufficialmente il paese, si sapeva solo che erano lì vicino nei boschi. Era gente che viveva con quattro cipolle, un pezzo di pane o una patata lessa, ma erano armati fino ai denti. E sui muri sono subito comparse scritte cubitali rosse: “Smrt Fašismu, sloboda narodu” (Morte al fascismo, liberta ai popoli), “Njegovo noè?emo, našo ne damo” (Non vogliamo la roba altrui, alla nostra non rinunciamo), “Živio Tito” (Viva Tito), “Živio Stalin” (Viva Stalin). Sempre nelle mie impressioni di quell’epoca, i partigiani si sono comportati neutralmente. Nel mio paese non ci sono state ritorsioni, né cattiverie, né rappresaglie generalizzate, solo qualche episodio. Io sono andato via nel gennaio 1949, ma fino al dicembre ho frequentato scuole italiane. Anche dal punto di vista religioso, che io sappia, non ci sono state persecuzioni sistematiche. Quando parlo dell’occupazione jugoslava con altri miei conterranei, che raccontano storie ben diverse ed orribili, faccio questa considerazione: “Ma allora noi abbiamo vissuto in un isola fortunata!”. C’è anche una spiegazione, che non so quanto sia vera: c’era un medico in paese, anzi due, erano marito e moglie, ed erano originari di Ragusa, dopo la guerra girava voce che fossero loro gli emissari che coordinavano le azioni del comunismo locale. Forse è vero che il dottore raguseo ha fatto veramente a favore di Lussino qualcosa che negli altri paesi non c’è stato. Arrivato l’esercito di liberazione jugoslavo sentivo che la gente cominciava a chiedersi cosa fare o non fare. Ai miei restava il negozio ma dopo la firma del trattato di pace del 1947, calò la cortina di ferro ed anche il negozio venne proletarizzato. La mamma ha potuto continuare a lavorare nel negozio stipendiata dalla “zadruga” (la cooperativa socialista) che l’aveva espropriata. Il papà era già assunto come impiegato nella nuova organizzazione statale jugoslava. A un certo momento iniziai a sentire parlare di opzioni. “Ma cosa xé l’opzion?”. “Xé una dichiarazion che se vol restar italiani o diventar croati”. “Ma mi son italian …” – e così sempre più in me si radicava il concetto di essere italiano. Avevo solo 11-12 anni, io mi sentivo italiano e facevo le cose per dimostrare di esserlo, pur non provenendo da una famiglia di spirito nazionalistico. Lo facevo semplicemente per contrapposizione, quasi istintiva, al fatto che volevano croatizzarci.
Ricordo che sentivo dire che in Italia avevano istituito dei campi profughi, e che si veniva smistati a casaccio di qua e di là. Non ho presente che i croati volessero cacciarci via. Entrambi i genitori avevano un lavoro e assistenza sanitaria, benché nessuno di noi sapesse il croato. I miei hanno deciso freddamente che bisognava andare ma, prima di muoversi, hanno pianificato tutto escludendo soprattutto che lo stato italiano avrebbe fatto qualcosa per noi. Papà partì da solo e andò a Trieste per riprendere a navigare. La mamma fece la dichiarazione di opzione e seguimmo papà nel ’49. Ricordo che siamo partiti da Lussino in corriera il giorno dell’Epifania. Giunti a Trieste, entrammo in campo profughi. Vi rimanemmo pochi giorni, sopravvivendo in qualche modo. Eravamo trattati soltanto come un oggetto qualsiasi da smistare di qua o di là a seconda del “regnicolo” di turno. Difatti ci smistarono rapidamente a Udine dove fummo alloggiati in un camerone in cui tutti erano degli sbandati come noi e bivaccavano. Era un ambiente veramente sgradevole con dentro non so quante famiglie, una branda per ciascuno, niente armadi, servizi igienici quasi inesistenti e lerci, nessuna umanità dalla Direzione. In settant’anni nessuno ha voluto dirlo finora: l’Italia che ha perso la guerra ha dovuto pagare i danni al vincitore, e fin qui è giusto. Ma per pagare i danni di guerra ha regalato agli jugoslavi tutti i beni posseduti dagli italiani di oltre confine. Mia mamma aveva predisposto le pratiche per il risarcimento dei danni di guerra, quando eravamo ancora a Lussino e già nel 1949, appena rientrati in Italia, quelle per i beni abbandonati. Hanno finito di pagarci dopo più di 60 anni e, mettendo insieme tutto, di tre case che avevamo, ci hanno rimborsato forse tre stanze! Rimane fortissima in me la delusione per come lo Stato ha trattato i profughi. Al campo profughi di Udine siamo stati due-tre settimane, poi ci siamo trasferiti, a nostre spese, in un alloggio di fortuna in Val d’Ega procurato dalla sorella di mio padre. Ce ne siamo andati dal campo profughi e non chiedemmo mai più niente allo Stato italiano: siamo quasi morti per i sacrifici ma abbiamo fatto tutto da soli. Siamo rimasti tre anni in Alto Adige e il papà quasi non lo abbiamo visto. A quel tempo temevamo: se gli jugoslavi sono già arrivati alle porte di Gorizia, il loro prossimo passo sarà Venezia! Però non potevamo stare senza papà e allora, nonostante i timori, ci siamo spostati a Gorizia sempre con le nostre risorse. Poi anch’io ho fatto la “scuola nautica” di Trieste e ho navigato. Dopo pochi mesi ho capito che mi stavo intrappolando in un ingranaggio senza uscite, decisi così di cambiare e mi sono laureato in economia e commercio. A quel punto il tarlo che mi rodeva fin dall’adolescenza non si era placato, anzi. Da quattro generazioni la mia stirpe vagava alla ricerca della terra promessa. Allora pensai: “Prima o poi succederà, chi sarà capace di fermare gli slavi quando verranno a Gorizia?” Dovevo trovare una terra più ospitale, per me e per i miei discendenti, e decisi così di venire via. Sono quindi esule due volte: una perché sono venuto via dal luogo in cui sono nato e due perché sono venuto via dalla regione che, tutto sommato, era il mio ambiente ma piuttosto che continuare l’esperienza degli esodi ho preferito andare di mia volontà in un posto che non desse problemi di confine. Mi si era presentata un’opportunità a Milano e dal primo gennaio 1964 sono in questa regione. Oggi mi conforta ricordare Lussino com’era nella mia infanzia, con la mia famiglia, i miei amici, i conoscenti che venivano a visitarci. Con i suoi suoni ed i suoi ritmi. Con il profumo dei suoi pini e dei suoi mirti.