La strega di Monza: ecco la sua storia

La leggenda narra che ogni 12 settembre, nella notte di plenilunio, si aggira nel parco di Monza un'ombra grande che insegue le luci...
Foto di Francisco Samperio da Pixabay

Giovanni Antonio Mezzotti racconta, in un opuscoletto stampato a Milano nel 1830, che il Bosco Bello (oggi parco di Monza) era “il ricetto dei folletti e di una strega che scorreva per quelle contrade a spargere la superstizione e il terrore.” Per molti anni nessuno osò addentrarsi in quella foresta fino a quando, nel 1587, “un gentiluomo di bello aspetto, cavalcando a gran trotto su un focoso destriero, vi si inoltrò e sparì fra l’ombra delle annose querce.”

Sarà poi Giuseppe di Bertoldi da Vicenza a raccontare, nel suo romanzo “La strega di Monza”, pubblicato a Torino, nel 1861, dalla tipografia sarda di Cotta e Calpini, le tante storie del Bosco Bello. Il libro apre con un messaggio dell’autore agli artisti che l’hanno illustrato: “Ai valenti artisti che nelle compaginate illustrazioni intessero sulla misera strega un serto di vivo splendore da rendere quasi festose ed accettevoli le vesti che la ricoprono. L’autore in omaggio di sincera riconoscente ammirazione dedica.” Si tratta di un’opera molto interessante e ricca di tante storie: feste, duelli, potenti famiglie in lotta, valorosi cavalieri e la storia d’amore dei due giovani innamorati del Bosco Bello, Gianguidotto da Lesmo e Rosa di Peregallo. Bertoldi immagina la strega di Monza e la descrive minuziosamente: era coperta di una veste sdrucita e rattoppata, con drappi di differenti colori. Aveva un arco al collo e un “turcasso” pieno di frecce. Il suo aspetto era “ributtante”, il viso aveva un colore giallastro, la pelle era rugosa ed “increspata” così come il collo: “aveva scarne e lunghissime mani, le quali dinotavano un’età che matura non avea ancora raggiunto, ma che i patimenti e le agitazioni di un cuore avvelenato le avevano dipinte sul volto.” I capelli erano crespi e inariditi, cadevano sulla fronte stretta e schiacciata “ove leggevasi l’astuzia, la malignità e la ferocia di un’anima abituata ai delitti.” Gli occhi erano incavati e conservavano ancora quella vivacità che, in altri tempi, forse “potevano essere chiamati ammaliatori, ma che ora domati dalle angosce dell’anima, non si aprivano che lanciando sguardi feroci, scrutatori e malefici. Le ciglia erano arcuate e vellose, manifestavano che spesso erano usate contrarsi in profondi pensieri. Le labbra erano sottili e colorite, d’un livido pavonazzo, sempre chiuse al sorriso e disegnavano una linea di inflessibilità ributtante.”

Nessuno era a conoscenza della sua dimora. In città era conosciuta come la gramigna e “quantunque incutesse sempre timore, il solo suo presentarsi, convenivano i villici di que’dintorni che aveva apportato spesso alle famiglie da essa visitate dei beni reali, misti alle funeste predizioni dell’arte sua, che avevano di mira alcuni individui della sorte de’ quali non la si poteva ritenere colpevole.” Insomma una strega dall’aspetto orribile, ma una brava erborista che conosceva tutti i segreti delle piante e dei fiori per poi farne unguenti miracolosi. Si racconta che sotto i rami del Bosco Bello, nel punto più lontano dagli occhi della gente, i monzesi erano soliti chiedere alla strega Matta Tapina le cure miracolose per i figli la famiglia e per gli amici. La leggenda narra che ogni 12 settembre, nella notte di plenilunio, si aggira nel parco di Monza un’ombra grande che insegue le luci, seguita da un carro che arranca dietro di lei; nell’aria parole magiche e quell’ombra che poi scompare tra gli alberi e le foglie. Una storia davvero misteriosa e chissà, se davvero camminando nel parco di Monza in una qualsiasi notte di plenilunio, ci capiterà mai di incontrare la donna vestita di stracci con il suo carro matto.