Un nuovo passo verso terapie personalizzate è stato compiuto dai ricercatori della Washington University School of Medicine di St. Louis, i quali hanno dimostrato come il sequenziamento dell’intero genoma in pazienti affetti da patologie oncologiche possa rappresentare un efficace strumento diagnostico. Per i medici, che possono così decidere la procedura terapeutica più adeguata per il singolo paziente e per i ricercatori, che sono in grado di identificare nuove mutazioni genetiche responsabili di un’eventuale suscettibilità neoplastica tra i membri della stessa famiglia.
«La cosiddetta medicina genomica personalizzata è solo uno dei primi esempi di ciò che diverrà prassi comune in un futuro non lontano» si legge nell’editoriale che accompagna i due nuovi studi apparsi sulle pagine della prestigiosa rivista Journal of the American Medical Association, che fanno ben sperare in nuove modalità di cura.
Il sequenziamento dell’intero genoma ha cambiato il destino di una giovane donna di 39 anni con una diagnosi di leucemia promielocitica acuta, giunta in ospedale per essere sottoposta a un trapianto di cellule staminali. Il caso si rivela un vero e proprio enigma clinico: le cellule neoplastiche mostravano caratteristiche specifiche della forma leucemica di cui era affetta la donna, ma erano prive dell’alterazione tipica che consente una diagnosi definitiva. Il DNA delle cellule neoplastiche non portava infatti traccia dello scambio che avviene tra due frammenti dei cromosomi 15 e 17, da cui origina una mutazione che causa la fusione di due geni e impedisce la maturazione dei globuli bianchi, provocando la leucemia promielocitica acuta.
Il sequenziamento del genoma ha consentito di risolvere questa ambiguità, offrendo l’opportunità di scegliere la terapia più appropriata per la paziente. Confrontando il DNA delle cellule sane prelevate dalla pelle con il DNA delle cellule neoplastiche, i ricercatori hanno individuato una nuova mutazione: l’inserzione di un piccolo segmento di 77 chilobasi del cromosoma 15 nel secondo introne del gene RARA (retinoic acid receptor alpha) presente nel cromosoma 17. Nelle cellule sane, il prodotto del gene RARA è una proteina localizzata nel nucleo delle cellule emopoietiche che, legandosi all’acido retinoico, ne favorisce la maturazione e il differenziamento. Nella cellule malate, il risultato della mutazione è invece l’espressione di un oncogene responsabile della genesi della leucemia promielocitica acuta.
«Questa piccola mutazione, sfuggita alle analisi convenzionali, ci ha svelato il pattern genetico della paziente, completo di tutte le alterazioni presenti nel suo DNA, indicandoci la migliore opzione terapeutica» ha spiegato John Welch, autore del lavoro pubblicato. «La paziente non è stata così sottoposta a un trapianto, ma a un trattamento chemioterapico, composto tra gli altri dall’acido retinoico, un metabolica della vitamina A, fondamentale nei processi di differenziamento e morfogenesi, che è stato in grado di correggere l’errore genetico e di garantire la remissione del tumore, aumentando l’aspettativa di vita della paziente».
Il sequenziamento dell’intero genoma è in grado di scovare anche le mutazioni responsabili di una maggiore suscettibilità allo sviluppo dei tumori, come dimostrato da Daniel Link, oncologo e autore del secondo lavoro pubblicato, in cui è descritta la storia clinica di una donna di 42 anni, colpita in giovane età da un tumore al seno e successivamente da una neoplasia ovarica. Link e il suo gruppo hanno identificato una mutazione inattesa nel gene TP53, un oncosoppressore coinvolto nei meccanismi di riparazione del DNA: la delezione di un ampio frammento del gene nel DNA delle cellule sane prelevate dalla pelle. Questo significa che la paziente è nata con la mutazione e quindi con un rischio elevato di sviluppare neoplasie in giovane età.
L’identificazione della mutazione specifica si rivela importante soprattutto in termini di prevenzione e diagnosi precoce. I figli della donna hanno infatti il 50 per cento delle probabilità di ereditare l’errore genetico dalla madre, questo si traduce nell’aumento del rischio di sviluppare neoplasie nel corso della vita, anche prima dei 40 anni. Identificare la mutazione del gene TP53 nei figli può salvare loro la vita, perchè avrebbero la possibilità di essere sottoposti a screening regolari, in grado di sorprendere un eventuale tumore nelle fasi più precoci.
«I risultati ottenuti sono certamente incoraggianti. Il sequenziamento dell’intero genoma può fare davvero la differenza per i pazienti e i loro familiari» ha affermato Richard Wilson, Direttore del Washington University’s Genome Institute e pioniere di questo tipo di studi. «Esso consente infatti di identificare mutazioni impossibili da riconoscere con i test genetici convenzionali, perchè coinvolgono cambiamenti strutturali del DNA identificabili soltanto mediante uno sguardo d’insieme all’intero patrimonio genetico». Casi selezionati come quelli descritti definiscono un nuovo scenario: la possibilità di un approccio personalizzato ai pazienti, che può trasformare la diagnosi e la cura.
Tuttavia, la cautela è d’obbligo, avverte lo stesso Wilson. Questa procedura non fa ancora parte della routine diagnostica, lo impediscono i costi piuttosto elevati e la necessità di un approfondimento ulteriore in merito all’entità dei cambiamenti genetici responsabili dello sviluppo delle neoplasie.
Marina Ferrario