Nel corso di un convegno che ho recentemente moderato sul rapporto tra giovani, lavoro e competenze, è emersa una questione meritevole di approfondimenti. Quando il sottoscritto era uno scolaro (meno di due decenni fa), il vero tempo delle scelte arrivava verso la maturità. Ma, almeno fino a quel punto, il percorso scolastico correva sostanzialmente su un doppio binario: chi desiderava accedere alle professioni intellettuali (e quindi prepararsi a studi universitari) andava al liceo, chi invece voleva indirizzarsi verso un orizzonte lavorativo già dopo le scuole sceglieva altro (e sempre con la possibilità di ripensarci). E qualunque fosse la scelta, l’idea di fondo era che si dovesse raggiungere prima una preparazione generale e, solo in un secondo momento, specializzarsi (magari “sul campo”).
Certo, le pressioni c’erano, ma non si pretendeva, come invece avviene oggi e come vorrebbe buona parte del mondo economico, che un giovane appena entrato nella pubertà, giunto al termine delle scuole secondarie di primo grado (le ex “scuole medie”), fosse già in grado di scegliere il proprio destino (iper-specializzato) in base alle prospettive di competitività sul mercato. Non si starà chiedendo troppo? E quanto può pesare questa pressione competitiva su quel malessere giovanile che ormai raccontiamo ogni settimana?