Come è noto, il termine comunitarismo è contraddistinto da una varietà di filoni filosofici, sociologici, antropologici, politici e religiosi, accostati dalla critica all’individualismo. Fortemente presente nella cultura classica e cristiana, esso ha rappresentato nel corso dei secoli una riflessione critica presente nella cultura europea – e dalla fine del Novecento in quella nord-americana – riguardo a un aspetto centrale della modernità: la tanto celebrata emancipazione dell’uomo dai vincoli, religiosi, nazionali, locali e familiari, che, oggi sostenuta dal progressismo liberal, porterebbe ad una impoverimento stesso dell’uomo, privandolo di dimensioni ulteriori e più durature del se medesimo, ridotto così a mera entità materiale.
Fortemente presente nelle culture conservatrici e nei connessi filoni sovranisti identitari protagonisti, a detta di Piero Ignazi, di una controrivoluzione postmoderna opposta al “68 pensiero”, che, lungi dall’essere un incidente di percorso della lineare “fine della storia”, rappresenta ancor oggi la spia e la resistenza a una problematica disgregazione sociale ed umana.
In vari articoli si è fatto riferimento al Sacro Romano Impero, modello per una postmoderna Europa dei popoli: orbene, non si tratta di un mero romanticismo reazionario, ma del punto di riferimento di una delle analisi filosofiche e sociologiche più importanti della nostra contemporaneità, fatta dal sociologo americano Robert Nisbet. A nostro avviso, l’opera di questo studioso rappresenta un punto di riferimento sia per l’analisi dell’individualismo postmoderno, sia per una riflessione sulle scienze sociali aventi come oggetto di studio l’organicismo delle società premoderne.
Ovviamente si tratta di temi complessi, che rimandano a ulteriori approfondimenti. In questa sede, cercheremo di svolgere alcune riflessioni che sviluppano alcuni temi presenti in autori della “destra tradizionalista”, affrontando queste tematiche tramite il confronto con alcuni importanti studiosi delle scienze sociali già citati: Eliade, Dumezil, Dumont, Polany. Per prima cosa va detto che il progressismo ha falsificato la coscienza storica, spacciando quella che è stata una decadenza per progresso. Il confronto tra i citati studiosi e gli studiosi antievoluzionisti lo dimostra, proponendo un dibattito estremamente ricco e variegato in quanto a temi e punti di vista.
In questa ampia dimensione è da rilevare l’apporto degli studi di Robert Nisbet. Come sostiene Spartaco Pupo nel numero 46 di “Tragressioni”, la riflessione di Nisbet sulle comunità tradizionali svolta nell’opera The quest of community del 1953 anticipa molti temi del movimento dei communitarians nord-americani, che attireranno l’attenzione di Alain De Benoist nel suo saggio Identità e comunità. Inoltre, proprio l’eredità medioevale sarà uno dei punti di riferimento alla reazione agli “immortali principi del 89” da parte della corrente reazionaria. Inoltre come dimostrano, gli studi di Tarchi e Zeev Sthernell la domanda di comunità, sia pur in forme diverse e varie riaffiora nelle varie esperienze di destra anche odierne.
Non è un caso che Robert Nisbet si occupi anche di pensiero conservatore. Ma qui ci preme sottolineare la sua originale analisi sul Medioevo: infatti, la disgregazione della ricchezza delle comunità civiche e religiose medioevali (famiglia patriarcale, parentato, villaggio, municipio, monastero, corporazioni) connessa con la crisi del feudalesimo è l’avvento dello Stato Moderno di hobbesiana memoria e crea un processo irreversibile di decadenza sociale e umana. Interessante ccome la stessa sociologia, sia pure da punti di vista diversi, si sia confrontata con questi temi. In particolare The quest of community, sebbene scritto nel lontano 1953, presenta oggi diverse linee guida nella riflessione comunitarista odierna: infatti per Nisbet la perdita della ricchezza comunitaria medioevale è una perdita di valori umani, poiché la loro trasmissione dipende non da strutture stataliste, ma da comunità naturali pre-statali ove queste virtù sono tramandate e vissute (lo Stato attraverso le politiche di sussidiarietà avrebbe il compito di favorire tali realtà che lo precedono). Ma il Leviatano antisociale e le strutture moderne collegabili ad una dimensione di società artificiale piuttosto che comunitaria dissolvono queste micro-realtà. Con lo sviluppo di questa decadenza, si creerebbe una falsa coscienza individualistica, relativista e atomista, una sorta di “gabbia d’acciaio” dove l’uomo sarebbe imprigionato e alienato non solo nella sua socialità, ma persino dalla legge naturale.
Ci chiediamo a questo punto se l’attuale fiorire di fenomeni nazionalpopulisti sia da ascrivere ad una patologia o se invece la “società aperta” e “la fine della storia” delle teorie di Popper e Fukuyama non siano il problema da cui scaturisce come disse Nisbet “una domanda di comunità”.