Paolo Pezzaglia vive a Monza. Milanese da generazioni e orgoglioso di essere bocconiano; è stato dirigente della prestigiosa industria di famiglia, un vero gioiello industriale in cui lavorerà fin dagli anni Sessanta sia in Italia, sia all’estero. Ma la poesia sarà, quasi segretamente, il suo più valido conforto contro una vita sempre più frenetica. Paolo mi rilascia un’intervista preziosa fatta di ricordi lontanissimi legati alla Formula 1.
Suo padre Bruno è stato un pioniere dell’automobile. Ha cominciato a lavorare alla Boneschi negli anni Venti con il commendatore Giovanni Boneschi per costruire prestigiose carrozzerie prevalentemente su telai Lancia. E’ vero che i suoi clienti erano Pirandello, il tenore Beniamino Gigli, la prima ballerina della Scala Buskaia per non parlare del Re?
“Confermo. Avevamo il sigillo della Real Casa. Durante la guerra eravamo i fornitori dello Stato di veicoli dell’Esercito, in particolare autoambulanze e parti d’aereo. Mio padre, essendosi laureato alla Bocconi alle serali e, continuando a lavorare sempre a pieno ritmo come usava, era diventato il direttore e poi aveva rilevato la Società. Ma rimaneva ben poco solo un grande nome perché durante la guerra erano stati bombardati e incendiati ben tre stabilimenti a Milano. Con la ripresa era stato tra i rifondatori di Assolombarda. Ma dalle corse si era sempre tenuto lontano e mi aveva trasmesso questa sua diffidenza. Molti degli amici-concorrenti avevano invece mantenuto il contatto con le corse: Elio Zagato si stava distinguendo nelle corse della categoria “sport”. Ricordo con ammirazione le sue Alfa Zagato TZ“.
Aveva per le corse automobilistiche una certa propensione?
“Si, esattamente. Appena patentato, nel 1956, ho cominciato a frequentare l’Autodromo di Monza e, credo dagli anni ‘58, anche attivamente girando sul circuito con una Frazer-Nash tipo Le Mans: una strana coupé inglese ovviamente con guida a destra. Ricordo che questa macchina era un vero drago: sputava fiamme dai tubi di scarico. Avrei dovuto avere problemi con la Polizia ma la targa in prova allora copriva questi rischi. Mio padre era più o meno al corrente! Studiavo lo stile di guida leggendo il manuale dell’ing. Taruffi e i suoi metodi di affrontare curve difficili come la “parabolica”; curavo il punto di stacco e i cambi di marcia all’entrata per resistere alla forza di gravità, tagliando verso il punto Z ed uscire (finalmente!) al massimo sul rettilineo. Non era facile con quella micidiale inglese: aveva solo quattro marce e freni ancora a tamburo. Con un litro faceva solo 1 km…e di soldi per il rifornimento ne avevo pochi. Iniziai a frequentare il vecchio pilota Gigi Platè, diventato poi un meccanico per non essere riuscito a sfondare in Formula 1. Aveva appeso al muro dell’officina la sua F1 che lui stesso aveva costruito, motore e tutto. Mi indicò il suo modo di alimentare il motore con un gasificatore (invece del carburatore); il carburante non era benzina ma etanolo, se ricordo bene. Quanti entusiasti nel difficile settore e quanti delusi! Allora non c’erano sponsor…”
Ci racconta il suo incontro con il Villoresi?
“Ebbene, a coronamento della mia preparazione alle corse, incontrai il Villoresi che guidava una mia 2300 Fiat coupé speciale, nuova di zecca. Fu lui che mi insegnò a fare le due curve di Lesmo in presa diretta: un’arte sopraffina che fu di questi grandi del passato. Fangio era, in questo, insuperabile: aveva sempre una marcia più alta nelle curve e quelli che volevano imitarlo uscivano di strada: Castellotti e Musso tanto per indicarne qualcuno”.
Quale fu il motivo per il quale rinunciò alle corse?
“Rinunciai per la decisa avversione di mio padre che mi aveva anche detto «stai lontano dagli avvocati e dagli sportivi!». Ovviamente pensava a questioni economiche. Gli sportivi si esaltano e suscitano entusiasmo: ne ho conosciuti tanti. Il primo fu il campione del mondo Nino Farina, a Villa d’Este, avevo 15 anni. Oltre a quelli già citati fui insieme a Phil Hill ad una cena in Anfia: avevo il compito di intrattenerlo parlando in inglese. Il grande Luigi Chinetti, qui poco conosciuto ma vincitore di 4 Le Mans, era a N.Y. come agente Ferrari e fondatore della North American Racing Team; i piloti erano suo figlio e i fratelli messicani Rodriguez. Ricordo il grande amico di famiglia Giovanbattista Guidotti con la sua miniera di conoscenze: memorabili i suoi ricordi di Nuvolari; era la sua seconda guida alle Mille Miglia. Come non ricordare il famoso inseguimento di Varzi a fari spenti; era amico personale di Stirling Moss, del grande Clark e forse dall’ancora più grande Peter Collins”.
Qual è il ricordo che ha di questi grandi piloti?
“L’immagine che più mi è rimasta fotografata nella mente è quella di Von Trips, qualche anno prima del Gran Premio di Formula 1 del ‘61 (in cui purtroppo morì) e della sua uscita in volo. Fu sfilato dalla monoposto e volato in altezza, 15 metri di sicuro, e il miracoloso atterraggio morbido su una provvidenziale siepe. Se lo ricorda anche mia moglie Fiorella che era con me su uno di quei furgoni attrezzati di piattaforma, perfetta per scattare una foto che sarebbe potuto diventare storica ma non la scattai. Seguirono poi altre occasioni di vivere il circuito, in particolare anche le curve sopraelevate, ovviamente a velocità moderata; sembra che furono soppresse perché i bolidi erano diventati talmente veloci da volare fuori. Mi fermo qui ma adesso che mi fa ricordare, affiorano altri ricordi. D’altra parte ho scritto un memoir Mursia con titolo La mia Fabbrica per una Poesia che racconta come è andata a finire; ma lo sport, le corse, l’Autodromo di Monza che compie cent’anni in questo tragico 2022 rimangono un tesoro che costudisco e mi riscaldano il cuore”.