Per molti è il diavolo in persona. Per altri un fastidio mediatico da silenziare. Filippo Champagne divide, irrita, provoca. E proprio per questo funziona. Nel grande circo dei social e dei personaggi improbabili, Filippo Champagne è diventato un simbolo: quello di un’Italia che si indigna, ma intanto guarda, commenta, condivide. Dice di detestarlo, ma sotto sotto non riesce a smettere di seguirlo.
C’è chi lo accusa di non fare nulla, di vivere di aria fritta e provocazioni. Ed è qui che, volenti o nolenti, bisogna riconoscergli un merito: Filippo Champagne si è inventato un mestiere. Non produce, non costruisce, non crea nulla di tangibile. Eppure esiste, guadagna attenzione, occupa spazio. In un mondo ossessionato dalla produttività, lui campa di presenza. Vivere senza fare niente: detta così sembra una bestemmia, ma anche un sogno proibito.
Noi non siamo tra quelli che lo corteggiano. Né tra quelli che lo invidiano apertamente. Però sarebbe ipocrita non ammettere che Filippo è un fenomeno di costume, uno specchio deformante della nostra epoca. Rappresenta l’estremo: l’ostentazione del vuoto come stile di vita, l’ego come contenuto, la provocazione come unico linguaggio.
Il paradosso è che mentre tutti lo insultano, in molti vorrebbero essere al suo posto. Non lui, forse, ma la sua libertà sì. La possibilità di non dover dimostrare nulla, se non di esistere. Filippo Champagne non è il diavolo: è un sintomo. E come tutti i sintomi, più che odiato andrebbe osservato. Perché parla più di noi che di lui.