Dal fieno al cemento, dal trattore al Tir, dal contadino al project manager con la giacca blu. Un tempo si seminava grano, oggi si seminano varianti urbanistiche. E il raccolto è buono: ettari ed ettari di volumetrie, parcheggi e capannoni che si moltiplicano come funghi dopo la pioggia“. Fuggire via da te, Brianza velenosa cantava Lucio Battisti. Una volta in Brianza bastava aprire la finestra per sentire l’odore dell’erba tagliata.
Oggi, se la apri, entra la polvere di un cantiere. Dove c’era un filare di betulle, ora c’è un prefabbricato in lamiera con scritto “logistica sostenibile”. In font verde speranza naturalmente. Già, sostenibile: nel senso che il suolo lo sostiene finché può. Le Amministrazioni locali si commuovono parlando di “rigenerazione urbana”. Peccato che, nel vocabolario brianzolo, “rigenerare” significhi “costruire sopra”. “Riqualificare” invece è sinonimo di “asfaltare con eleganza”. E “verde pubblico”? Una rotonda con tre aiuole e un ulivo in leasing. Nel frattempo, i campi resistono a macchie sparse come un vecchio ricordo. Gli ultimi superstiti della pianura, accerchiati da capannoni, vivono il tramonto dei loro giorni sotto l’ombra dei muletti. Persino i bambini crescono imparando prima a dire “oneri di urbanizzazione” che “mamma”.
Gli ambientalisti denunciano, le giunte sorridono, i cittadini sospirano. Ma guai a dire che la Brianza sta scomparendo: no, si sta “evolvendo”. E come ogni evoluzione che si rispetti, produce la sua nuova fauna. Spariti i rospi e le lucciole, abbondano i costruttori e gli assessori ai lavori pubblici. La Brianza continua a costruire il suo monumento alla produttività. Un gigantesco mausoleo di calcestruzzo, dedicato al dio dei metri cubi. Qui la natura non muore: semplicemente, si fa immobiliare…