La Grazia si apre in un tempo sospeso, quello degli ultimi giorni di un mandato che sta per concludersi. Mariano De Santis, Presidente della Repubblica, attraversa le sue giornate con la compostezza silenziosa di chi ha abitato a lungo il potere senza mai confondersi con esso. È un uomo vedovo, cattolico, solo nel modo profondo di chi ha scelto la responsabilità come forma di vita.
Accanto a lui c’è Dorotea, la figlia, giurista come il padre, presenza lucida e affettiva insieme. Tra i corridoi solenni del Palazzo e i dialoghi misurati, il loro rapporto si muove su una linea sottile fatta di rispetto, distanza e una tenerezza trattenuta, mai esibita.
Quando sul tavolo del Presidente arrivano due richieste di grazia, tutto cambia. Non sono semplici pratiche amministrative, ma ferite aperte, storie umane che reclamano ascolto. Due decisioni estreme, due dilemmi morali che mettono in crisi ogni certezza giuridica e spirituale. Le vicende dei condannati iniziano a insinuarsi nella vita privata di De Santis, intrecciandosi con i suoi ricordi, con la fede, con il senso stesso del perdono.
Il film segue il Presidente mentre il dubbio diventa compagno quotidiano: nelle stanze vuote, nei gesti ripetuti, nei silenzi carichi di pensiero. La grazia, da atto istituzionale, si trasforma in domanda intima: fino a che punto è possibile separare la legge dalla compassione? E chi è davvero autorizzato a concedere il perdono?
Nel momento finale, De Santis è chiamato a scegliere. Non per affermare il proprio potere, ma per assumerne il peso fino in fondo. La decisione che prenderà, con sobrietà e senso assoluto della responsabilità, restituisce l’immagine di un Presidente che non cerca l’eroismo, ma la coerenza morale. Un uomo che, nel compiere l’ultimo gesto del suo mandato, accetta che la grazia non sia una risposta, ma un atto di profonda solitudine e umanità.