Il mio compagno vuole coltivare cannabis. Sta commettendo un reato?

Un’idea... originale ma controversa. Risponde l’avvocato Marco Martini del Foro di Monza.
Cannabis
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Buongiorno. Il mio compagno, insieme a mio padre, che è agricoltore, ha deciso di destinare un terreno di nostra proprietà alla coltivazione di cannabis sativa. Io ho già espresso ad entrambi la mia personale preoccupazione, poiché ritengo che ci siano dei profili di pericolosità, temo che stiano commettendo un reato, però non mi vogliono ascoltare. Cosa ne pensa?

Gentile signora, Il D.P.R. 309/90, Testo Unico sugli Stupefacenti, disciplina, all’art. 73, comma 1, le condotte illecite connesse alle sostanze stupefacenti o psicotrope: la norma sanziona “… chiunque…coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti…”.

Il Legislatore, dopo aver illustrato le diverse condotte, ha stabilito poi trattamenti sanzionatori diversi, ora, dopo la sentenza della Corte Costituzionale 32 del 25.2.2014, a seconda che le condotte sopra riportate attengano a sostanze stupefacenti c.d. pesanti o a droghe c.d. leggere.

Se si tratta di droghe pesanti (eroina e cocaina per intenderci) le pene sono di sei a venti anni di reclusione e multa da euro 26.000 a 260.000; se si tratta di droghe c.d. leggere (marijuana e hashish), le pene vanno da due a sei anni di reclusione e multa da euro 5.164 a euro 77.468.

Il T.U.L.STUP. è strutturato secondo il sistema tabellare: sono soggette alla normativa che vieta la produzione e la circolazione delle sostanze stupefacenti e psicotrope solo quelle indicate nelle tabelle, ora di nuovo quattro, allegate al DPR 309/90. A seguito della L. 79/2014 vi è stata una revisione del sistema tabellare in materia di sostanze stupefacenti. Le droghe c.d. pesanti sono contenute nella tabella I di cui all’art. 14 del DPR; quelle leggere nella tabella II dello stesso articolo.

Per quel che attiene alla cannabis, la detta sostanza (foglie ed inflorescenze) ed i prodotti da essa ottenuti (olio e resina) è stata inserita nella tabella II senza che sia stato effettuato alcun riferimento alla percentuale di principio attivo, THC, tetraidrocannabinolo; l’aggettivo indica è stato eliminato, sicchè sono state omologate cannabis indica e cannabis sativa ( due qualità diverse di cannabis, a seconda del luogo di produzione della cannabis e degli effetti che l’assunzione di detta sostanza produce).

Per quanto qui interessa, bisogna subito rimarcare come la coltivazione delle sostanze stupefacenti comprese nelle tabelle I e II è sempre sanzionata dal DPR 309/90 sia ai sensi dell’art. 73 (commi 1 e 4, illecito penale) che ai sensi dell’art. 75 (illecito amministrativo).

È poi entrata in vigore la L. 242/2016 che ha promosso la coltivazione industriale di determinate qualità di canapa, dando luogo ad un quadro normativo capace, come è stato, di creare dubbi interpretativi.

Si tratta quindi di cercare di comprendere che cosa si possa fare e che cosa invece non si possa fare, quanto al tema che ci occupa.

Nel DPR 309/90 è specificato, all’art. 26 comma 1, come sia vietata la coltivazione delle piante comprese nelle tabelle I e II dell’art. 14, ad eccezione della canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali, diversi da quelli indicati dall’art. 27, consentiti dalla normativa dell’UE.

Sono intervenute le Sezioni Unite della Corte Suprema di Cassazione ( la Cassazione Penale è divisa in sette sezioni e sulle questioni per cui vi è contrasto interpretativo interviene la Cassazione a Sezioni Unite) con la decisione 30475/2019, che hanno stabilito come, atteso che il Legislatore ha qualificato la cannabis come sostanza stupefacente in ogni sua varietà, viene sanzionata la coltivazione e la commercializzazione della cannabis e dei prodotti da essa ottenuti (foglie, infiorescenze, olio e resina) in assenza di alcun valore soglia rispetto alla percentuale di THC; secondo la Corte di Cassazione, la sola eccezione prevista dall’art. 26 comma 2 riguarda la canapa coltivata esclusivamente per la produzione di fibre o per altri usi industriali.

La legge 242 del 2016, sopra ricordata, disciplina e promuove la coltivazione industriale di determinate varietà di canapa sativa L., elencando sette diverse categorie.

I prodotti che si possono ottenere dalla coltivazione della varietà di canapa in questione sono:

1) Alimenti e cosmetici prodotti nel rispetto delle discipline dei diversi settori;

2) Semilavorati per forniture alle industrie e alle attività artigianali in vari settori;

3) Materiale destinato alla pratica del sovescio (un sistema di fertilizzazione dei terreni agricoli)

4) Materiale destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili alla bioediliza

5) Materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica dei siti inquinati;

6) Coltivazione dedicate alle attività didattiche e dimostratrice nonché di ricerca da parte di istituti pubblici e privati;

7) Coltivazioni destinate al florovivaismo.

Dalla lettura combinata dell’art. 73 comma I e IV DPR 309/90, della sentenza a sezioni unite della Corte di Cassazione e dell’art. 2 comma 2 L. 242/2016 si comprende che dalla coltivazione di cannabis sativa L non possono essere realizzati prodotti diversi da questi sopra elencati e in particolare foglie, inflorescenze, olio e resina.

La legge 242/2016, all’art. 4, commi 5 e 7, prevede poi delle clausole di esclusione di responsabilità in favore dell’agricoltore che, pur impiegando qualità consentite e per gli scopi sopra elencati, coltivi canapa che risulti contenere una percentuale di principio attivo superiore al limite massimo previsto dal TULSTUP.

Queste due norme stabiliscono:

1) al comma 5 che non vi sono responsabilità in capo all’agricoltore che ha rispettato le prescrizioni;

2) al comma 7, che, se le coltivazioni di canapa dovessero presentare un contenuto quanto al principio attivo superiore allo 0.6 per cento, pur venendo disposto sequestro e distruzione, non viene attribuita alcuna responsabilità all’agricoltore.

Si deve concludere che però le clausole di esenzione di responsabilità riguardano il coltivatore che però realizzi le colture secondo il disposto della Legge 242/2016, rimanendo chiaro che qualsiasi altra condotta di cessione o commercializzazione di prodotti derivanti dalla coltivazione della cannabis diversi da quelli indicati all’art. 2 comma della L. 242/16 rimane attività illecita.

Nel caso in cui si proceda alla coltivazione della cannabis per produzioni diverse da quelle di cui alla legge 242/2016, dovrà sempre essere verificato se i derivati frutto della coltivazione illegale siano in concreto privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività.

Si sono espresse sul punto le sezioni Unite della Corte di Cassazione, con la sentenza n. 12348/2020, spiegando a quali condizioni la coltivazione domestica di marijuana sia penalmente rilevante.

È stato cosi risolto un contrasto giurisprudenziale tra due contrapposti indirizzi interpretativi.

Secondo un primo orientamento, “ai fini della configurabilità del reato di coltivazione di piante stupefacenti, non è sufficiente la mera coltivazione di una pianta conforme al tipo botanico vietato che, per maturazione, abbia raggiunto la soglia minima di capacità drogante, ma è altresì necessario verificare se tale attività sia concretamente idonea a ledere la salute pubblica ed a favorire la circolazione della droga alimentandone il mercato” (cfr. Cass. Pen., n. 36037/2017).

In base al secondo indirizzo, invece, “ai fini della punibilità della coltivazione di stupefacenti, l’offensività della condotta consiste nella sua idoneità a produrre la sostanza per il consumo, sicché non rileva la quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, ma la conformità della pianta al tipo botanico previsto e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre la sostanza stupefacente, nell’obiettivo di scongiurare il rischio di diffusione futura della sostanza stupefacente” (cfr. Cass. Pen., n. 35654/2017; Cass. Pen., n. 53337/2016).

Le Sezioni Unite hanno precisato che la risposta punitiva all’attività di coltivazione di piante stupefacenti, deve essere graduata in relazione alle diverse modalità in cui essa può essere attuata.

Ne segue che si devono considerare penalmente lecite la coltivazione domestica a fine di autoconsumo, per mancanza di tipicità (seppure sanzionata in via amministrativa ex art. 75), nonché la coltivazione industriale che, all’esito del completo processo di sviluppo delle piante, non produca sostanza stupefacente, per mancanza di offensività in concreto.

Sulla scorta di tali precisazioni, le Sezioni Unite hanno affermato il principio di diritto per cui : “Il reato di coltivazione di stupefacenti è configurabile indipendentemente dalla quantità di principio attivo ricavabile nell’immediatezza, essendo sufficienti la conformità del tipo botanico e la sua attitudine, anche per le modalità di coltivazione, a giungere a maturazione e a produrre sostanza stupefacente; devono però ritenersi escluse, in quanto non riconducibili nell’ambito della norma penale: le attività di coltivazioni di minime dimensioni svolte in forma domestica, che per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale delcoltivatore”.

Le cronache, con certa frequenza, riportano di casi di sequestri e di procedimenti per soggetti colti nell’attività di una coltivazione all’evidenza, per dimensione (serre), non destinata ad un uso personale (mi pare che qualche mese fa avesse fatto scalpore il caso di un ex giocatore di serie a), e quindi penalmente illecite; le coltivazioni di un numero di piante invece più contenuto può consentire al detentore una riconducibilità del fatto nell’alveo del mero illecito amministrativo, ex art. 75 DPR 309/90; la coltivazione di tipo agro industriale manda esente da responsabilità l’agricoltore, alle condizioni indicate sopra.

Sulla base di quanto ho cercato di spiegare, ne segue che l’attività che sta ponendo in essere il suo compagno, insieme a suo padre, pare, se destinata alla realizzazione di uno dei prodotti di cui alla legge 242/2016, escludere profili di responsabilità in capo agli stessi, sia perché coperti dall’art. 4, comma 5 della detta legge, sia perché, nel caso di superamento della soglia di THC, comunque esenti da responsabilità penale.

Avv. Marco Martini *

* Iscritto all’ordine degli avvocati di Monza dal 1997. Nato a Vicenza e dal 1984 vive a Monza, ha frequentato il liceo classico Zucchi e si è poi laureato presso l’Università statale di Milano. Socio fondatore della Camera penale di Monza, ha conseguito diploma della Scuola di Alta specializzazione della UCPI; iscritto alle liste del patrocinio a spese dello Stato, delle difese d’ufficio, si occupa in via esclusiva di diritto penale carcerario e societario.