Dopo la gravidanza sono ingrassata e da allora mio marito è cambiato, diventando violento. Vorrei denunciarlo ma ho paura

Violenze domestiche. Un suggerimento legale da parte dell’avvocato Marco Martini del Foro di Monza.
Monza Tribunale
Monza Tribunale Fabrizio Radaelli

Sono sposata da 12 anni con mio marito e abbiamo due figli. Durante la seconda gravidanza sono ingrassata di alcuni chili, che poi non sono riuscita più a perdere dopo il parto. Sono anche caduta in depressione dopo la nascita della bambina. Sta di fatto che, da allora, mio marito ha mutato atteggiamento nei miei confronti, facendo emergere un lato del suo carattere che forse ho sempre saputo avesse.

È diventato aggressivo, violento, mi insulta in continuazione: ogni giorno continua a ripetermi, ogni volta che può, quanto sia diventata grassa (non sono così sovrappeso in realtà), brutta, quanto sia lenta nel fare le cose quotidiane. Dice queste cose sia nel privato che in pubblico, quando capita di incontrare familiari ed amici. Per quieto vivere cerco di fronte agli altri di trattenere le lacrime, cosa che invece non faccio quando siamo da soli. La mia vita è diventata un inferno da due anni e non vivo più.

È capitato anche che, quando viene contraddetto, sia passato alle vie di fatto, tirandomi dei ceffoni, dei calci, lanciandomi contro dei piatti, sbattendo forte i pugni sul tavolo o contro le porte. Cosi facendo, oltre a spaventare me, spaventa anche i bambini.

In questa condizione, ovviamente, non ho alcun desiderio di lui, eppure capita spesso che invece lui voglia fare all’amore e nonostante il mio rifiuto si imponga, mi trattenga i polsi. Anche in questo caso accetto alla fine di fare quello che vuole, perché ci sono i bambini piccoli nella stanza a fianco e perché sono fatta così.

Però ora non ce la faccio più, l’ultima volta è stato orribile e mi ha fatto male oltre che nel corpo anche nell’anima, mi ha ucciso. Voglio separarmi. Ho parlato con un’amica che mi dice che devo fare denuncia di queste cose. Non so come fare anche perché non so poi come fare a vivere io e i miei figli.

Gentile signora,
Le condotte che mi dice ha posto in essere suo marito sono riconducibili a delitti, puniti dal codice penale.

Il primo, evidente, è quello previsto e punito dall’art. 572 C.P., che sanziona la condotta di chi pone in essere maltrattamenti in famiglia con la pena della reclusione da tre a sette anni.

Il reato di maltrattamenti in famiglia integra un’ipotesi di reato abituale che può essere connotata sia da fatti commissivi che da fatti omissivi, che assumono rilevanza penale ai fini dell’art. 572 C.P. per effetto della loro reiterazione nel tempo e si consuma quando si realizza un certo numero di tali comportamenti collegati da un nesso di abitualità: i singoli episodi di violenza e minaccia si trasformano in maltrattamenti in famiglia quando quelle condotte sono reiterate ed abituali.

Si dovrà quindi accertare sia la presenza di ripetuti atti vessatori, anche di natura diversa, ma comunque lesivi dell’integrità fisica o morale della persona tali da rendere dolorosa la convivenza, sia la condizione di soggezione psicologica della persona offesa posta in uno stato di sofferenza fisica o morale (cfr. Corte di Cassazione – III sez. pen. – sentenza n. 35997 del 16 dicembre 2020).

Si tratta di un reato procedibile di ufficio, quindi a prescindere dalla decisione della persona offesa di procedere o meno con denuncia querela; l’eventuale proposizione della stessa da parte della persona offesa concretizza il permanere del procedimento penale, a prescindere da una eventuale decisione della stessa persona offesa di rimettere la querela. Intendo dire che una volta proposta la querela, se pure rimessa, non consente la elisione del procedimento penale, che prosegue di ufficio.

Quanto alle altre condotte che ha posto in essere suo marito, le stesse devono essere ricondotte all’ipotesi di cui all’art. 609 bis C.P.

La violenza sessuale è un delitto contro la persona commesso da chiunque:

– con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità, costringe taluno a compiere o subire atti sessuali (art. 609 bis comma 1 C.P.)

– induce taluno a compiere o subire atti sessuali: abusando delle condizioni di inferiorità fisica o psichica della persona offesa al momento del fatto (art. 609 bis, co. 2, n. 1 c.p.), ovvero traendo in inganno la persona offesa per essersi il colpevole sostituito ad altra persona (art. 609 bis, co. 2, n. 2 c.p.);

La norma disciplina due diverse ipotesi: la prima, contemplata nel primo comma, punisce con la reclusione da uno a cinque anni “chiunque con violenza o minaccia o mediante abuso di autorità costringe taluno a compiere o a subire atti sessuali”; mentre la seconda sottopone alla medesima pena “chi induce taluno a compiere o a subire atti sessuali”, attraverso due condotte tipicamente contemplate dalla norma. Entrambe le condotte sono sanzionate con la pena della reclusione

Con riferimento alla prima ipotesi, la giurisprudenza ha ritenuto che l’induzione sufficiente alla sussistenza del reato non si identifica solamente nell’attività di persuasione, esercitata sulla persona offesa, per convincerla a prestare il proprio consenso all’atto sessuale, ma consiste in ogni forma di sopraffazione posta in essere senza ricorrere ad atti costrittivi ed intimidatori nei confronti della vittima, la quale, non risultando in grado di opporsi a causa della sua condizione di inferiorità, si sottopone al volere dell’autore della condotta, divenendo strumento di soddisfazione delle voglie sessuali di quest’ultimo (Cass. Pen., sez. IV, 17 settembre 2008, n. 40795).

Autore del delitto di violenza sessuale può essere chiunque. Dottrina e giurisprudenza sono concordi nel ritenere che l’autore del reato in questione può essere anche il coniuge. Sull’argomento, la Suprema Corte ha ritenuto che, sebbene i rapporti sessuali siano un diritto-dovere dei coniugi, diritto che è connaturato alla volontà che gli stessi hanno manifestato innanzi all’Ufficiale di Stato Civile, nel momento in cui il rapporto matrimoniale cessa nei modi previsti dalla legge, si deve ritenere del tutto illecita e coercitiva l’eventuale iniziativa sessuale di una delle parti (Cass. Pen., sez. III, 21 novembre 2007, n. 42079). Tuttavia, episodi di violenza sessuale possono verificarsi non soltanto tra coniugi separati ma, altresì, tra due coniugi che ancora stanno insieme, come nel suo caso.

Ciò in quanto può sussistere violenza sessuale, anche nel caso in cui la moglie rifiuti silenziosamente il rapporto sessuale per evitare scenate, laddove, comunque, il marito ne sia a conoscenza: “ … in tema di reati contro la libertà sessuale, nei rapporti di coppia di tipo coniugale, non ha valore scriminante il fatto che la donna non si opponga palesemente ai rapporti sessuali e li subisca, potendosi configurare nella specie un costringimento fisico – psichico idoneo ad incidere sulla libertà di autodeterminazione, quando è provato che l’autore, per le violenze e minacce precedenti, poste ripetutamente in essere nei confronti della vittima, aveva la consapevolezza del rifiuto implicito della stessa agli atti sessuali … ” (cfr. Cass. Pen. 13983/2008).

Quanto alla procedibilità, appare opportuno segnalare che l’art. 609 septies c.p. ha dettato una disciplina nuova delle condizioni di procedibilità dei reati di violenza sessuale.

In particolare, tali delitti sono punibili a querela della persona offesa. Una novità molto importante riguarda l’irrevocabilità della querela. La previsione ha certamente lo scopo di evitare che la vittima, anche in considerazione della tipologia dei reati, possa in un secondo momento revocare la querela per esempio per vergogna.

La norma prevede, altresì, dei casi in cui i reati di violenza sessuale sono perseguibili d’ufficio ed, in particolare:

1) se il fatto previsto dall’art. 609 bis c.p. è commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni diciotto;

2) se il fatto è commesso dall’ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore, ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza;

3) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell’esercizio delle proprie funzioni;

4) se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio;

5) se il fatto è commesso nell’ipotesi prevista dall’art. 609 quater ultimo comma, ossia nel caso in cui la persona offesa non abbia compiuto gli anni dieci.

Si procede, quindi, d’ufficio per il reato di violenza sessuale “se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio“.

Va segnalato che la Corte di Cassazione ha stabilito che, per far venir meno la connessione suddetta, e dunque rendere nuovamente necessaria la querela per procedere per il reato di violenza sessuale, non sia sufficiente una qualsiasi formula assolutoria dal reato procedibile d’ufficio. Anche in questo caso prevale un’interpretazione che guarda al fatto storico: occorre verificare se esso, sotto il profilo materiale, presenti, o meno, comunque i profili dell’illiceità penale, con la conseguenza, rispettivamente, di essere, o al contrario di non essere, in grado di rimuovere l’ostacolo (mancanza di querela) all’esercizio dell’azione penale in ordine al reato sessuale (Sezione III, sentenza n. 45283/2005). Si tratta di un approccio risalente.

La sentenza della Sezione III n. 2770/1965, infatti, già sancisce che nel caso di violenza carnale connessa con reato procedibile d’ufficio, il proscioglimento da quest’ultimo pronunciato con la formula “perché il fatto non costituisce reato“, come anche l’improcedibilità perché il fatto, a seguito di diversa qualificazione giuridica ovvero di esclusione di circostanza aggravante, risulta perseguibile a querela, non fa venir meno la perseguibilità del connesso reato contro la libertà sessuale, in quanto non esclude la circostanza del fatto storico che ha dato luogo alla connessione.

Analogamente, la pronuncia, della medesima Sezione, n. 458/1978 ritiene che l’effetto obiettivo attraente sopra descritto si verifica semplicemente tramite la sussistenza della connessione materiale al momento iniziale del processo.

È dunque solo la formula assolutoria dell’insussistenza del delitto perseguibile d’ufficio che elide l’effetto attrattivo, non essendo idonea ogni altra formula di proscioglimento, come pure la diversa qualificazione giuridica del fatto, ad escludere la sopravvivenza del fatto storico. Anche l’assoluzione con la formula “perché l’imputato non lo ha commesso” è idonea a far venire meno la procedibilità d’ufficio per la connessa violenza sessuale (Sezione III, sentenza n. 33775/2005), andando a pregiudicare la materiale riconducibilità del fatto storico all’imputato.

L’estinzione per prescrizione del reato procedibile d’ufficio, invece, mantiene l’efficacia dell’art. 609 septies c.p. (Sezione III, sentenza n. 1506/1997), trattandosi di una causa di non punibilità riguardante, come noto, l’opportunità di punire il reo, non la sussistenza degli elementi costitutivi del fatto materiale.

Con la Legge 19 luglio 2019, n. 69 (recante “Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”) è entrato in vigore dal 9 agosto di quell’anno il c.d. “Codice Rosso”.

Detta legge impone una concreta accelerazione delle indagini per i fatti compresi nel testo normativo atteso che la polizia giudiziaria, acquisita la notizia di reato, riferisce immediatamente al pubblico ministero, anche in forma orale; il pubblico ministero, nelle ipotesi ove proceda per i delitti di violenza domestica o di genere, entro tre giorni dall’iscrizione della notizia di reato, deve assumere informazioni dalla persona offesa o da chi ha denunciato i fatti di reato. Il termine di tre giorni può essere prorogato solamente in presenza di imprescindibili esigenze di tutela di minori o della riservatezza delle indagini, pure nell’interesse della persona offesa; gli atti d’indagine delegati dal pubblico ministero alla polizia giudiziaria devono avvenire senza ritardo.

È stata modificata la misura cautelare del divieto di avvicinamento ai luoghi frequentati dalla persona offesa, nella finalità di consentire al giudice di garantirne il rispetto anche per il tramite di procedure di controllo attraverso mezzi elettronici o ulteriori strumenti tecnici, come il braccialetto elettronico (anche se bisogna avere la fortuna di trovarne uno, in verità).

In relazione alla violenza sessuale viene esteso il termine concesso alla persona offesa per sporgere querela, dagli attuali 6 mesi a 12 mesi.

Avv. Marco Martini *

* Iscritto all’ordine degli Avvocati di Monza dal 1997. Nato a Vicenza e dal 1984 vive a Monza, ha frequentato il liceo classico Zucchi e si è poi laureato presso l’Università statale di Milano. Socio fondatore della Camera penale di Monza, ha conseguito diploma della Scuola di Alta specializzazione della UCPI; iscritto alle liste del patrocinio a spese dello Stato, delle difese d’ufficio, si occupa in via esclusiva di diritto penale carcerario e societario.