Paolo Cognetti e Nicola Magrin: così è nato “Senza mai arrivare in cima”

Il racconto del viaggio sull’Himalaya diventato “Senza mai arrivare in cima” fatto al Cittadino da un compagno di viaggio di Paolo Cognetti: il pittore monzese Nicola Magrin.
Paolo Cognetti e Nicola Magrin sull’Alto Dolpo
Paolo Cognetti e Nicola Magrin sull’Alto Dolpo

È arrivato in libreria “Senza mai arrivare in cima”, il racconto del viaggio in Himalaya che il premio Strega Paolo Cognetti ha compiuto anche in compagnia dell’artista monzese Nicola Magrin, autore della copertina di “Le otto montagne”: è sua anche quella del nuovo libro,

disponibile da pochi giorni (Einaudi, 120 pagine, 14 euro). L’avventura era stata raccontata anche in un numero monografico di Meridiani Montagne di gennaio 2018: il viaggio in Nepal, sull’Alto Doplo, ha avuto tra i protagonisti anche Remigio, amico di sempre dello scrittore, e il fotoreporter Stefano Torrione, che ha documentato il viaggio in più di 3mila scatti. “Il Nepal, un paese schiacciato fra l’India e la Cina, e da quel progresso che prima o poi lo raggiungerà” scrive Einaudi presentando il libro: “L’Himalaya non è una terra in cui addentrarsi alla leggera: è montagna viva, abitata, usata, a volte subita, molto lontana dalla nostra”. Questa è l’intervista che il Cittadino ha fatto a Nicola Magrin un anno fa, novembre 2017, quando era di ritorno dalla spedizione.

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Un po’ si erano già visti. Poi una casa editrice li ha fatti incrociare davvero: “Le otto montagne” di Paolo Cognetti, premio Strega 2017, sono state dipinte in copertina dal monzese Nicola Magrin. Quando a settembre 2016 si sono incontrati hanno scoperto di avere molto di più in comune. E il minimo comune denominatore era la montagna. «Mi ha chiamato e mi ha chiesto», ricorda il pittore: «E se cercassimo la nostra Shangri-La?». Quella Shangri-La sono andati a cercarla per tre settimane in Nepal, sull’Himalaya.

Un attimo: da capo.

Paolo Cognetti l’avevo incontrato una prima volta qui a Monza per la presentazione in libreria di “Il ragazzo selvatico”, alcuni anni fa. È passato tanto tempo, poi la casa editrice mi ha chiesto di realizzare la copertina di “Le otto montagne”. E lui ha voluto venire a trovarmi. Era lo scorso settembre, il libro sarebbe poi uscito a novembre. Abbiamo parlato molto, abbiamo scoperto di avere molto in comune. Gli ho regalato “Orizzonte perduto” di James Hilton, pubblicato da Sellerio: un romanzo poi diventato un film di Frank Capra nel 1937. È un romanzo d’altri tempi, che racconta la ricerca di Shangri-La, l’antico segreto monastero che raccoglie saggi dal mondo senza preoccuparsi di cercare una felicità prestabilita.

È in Nepal?

Forse. Fatto sta che dopo l’uscita del libro Paolo mi ha chiamato e mi ha chiesto: “Se cercassimo la nostra Shangri-La?”. Non ci ho pensato molto. Ho accettato. Erano anche passati diversi anni dall’ultimo mio lungo viaggio, in Canada, quando ho incontrato i lupi. Il progetto era il Nepal.

Be’, non è che prendi e vai…
No, ci ha pensato Adriano Favre, direttore di soccorso alpino in Val d’Aosta, che di viaggi di questo genere ne ha già fatti tanti. Ha organizzato una spedizione di dieci persone, inclusi i mulattieri, gli addetti alla cucina, la logistica. È grazie a lui se nei primi giorni di ottobre siamo stati in grado di partire per l’Alto Dolpo, un posto di cui non si sa molto: non ci sono cartine in Italia, né guide. Non c’è corrente elettrica né altro.

Niente niente?
Niente. Né strade né mezzi per attraversarlo. Di fatto è un luogo inviolato. La vita lì è quasi medievale. Non si può nemmeno organizzarsi per fare un fuoco, perché le altezze non permettono agli alberi di crescere.

Appunto, altezze.
Abbiamo fatto 300 chilometri a piedi. Si parte da Katmandu, si arriva a 3mila metri, poi l’acclimatamento. Da lì percorsi tra i 4 e i 5mila metri di altitudine. Sette passi arrivando fino a 5.600 metri.

Sette? E le otto montagne?
Già, niente “Otto montagne”. Il campo base più alto a 4.500 metri. La giornata tipo? Sveglia alle 5.30 con un caffè di moka. Poi il cammino, chilometri su chilometri. A pranzo un panino e poi marcia fino alle tre del pomeriggio. A quel punto le guide cercavano il posto adatto per un campo e la notte. Da lì in poi, il tempo di pensare, parlare. Con poca acqua.

Cioè?
Poca acqua per lavarsi. I torrenti sono freddi. Dopo tre settimane diventa un problema.

Cosa rimane?
Il viaggio più bello e intenso che abbia mai vissuto. Intendiamoci: non è la montagna in sé. Una montagna è una montagna. Anche sull’Appennino. Anche al parco, ogni mattina col cane, trovo uno spazio che per molti versi è capace di portarti altrove. Ma quello sembra il deserto delle tentazioni. Un viaggio psicologico, complici le condizioni, incluso il divieto di ammalarsi perché non si saprebbe cosa fare, oppure gli spazi che non conoscono turismo, è camminare in te stesso. Come un pellegrinaggio verso una montagna sacra.

Siete partiti nei primi giorni di ottobre e sei tornato nei primi giorni di novembre.
Sì: ora devo lasciare sedimentare tutto. Ho scattato tante foto. Ma serve tempo.

E i tempi senza marcia?
Parole. Tante. E letture. Ero in tenda con Paolo Cognetti che ha letto un’infinità di libri. Tra questi un romanzo che abbiamo letto entrambi più volte. “Il leopardo delle nevi” di Peter Matthiessen che racconta il viaggio dell’autore con un naturalista nel 1973 in Tibet, proprio nella regione himalayana del Dolpo. Ma è un altro viaggio, quello alla ricerca di un senso. Ecco: anche quel libro è stato un ottimo compagno di viaggio per noi, che abbiamo fatto lo stesso percorso a quarant’anni di distanza.

Cosa c’è dopo?
Un altro viaggio. Alla fine ce lo siamo chiesto: il prossimo ottobre che parte del Nepal faremo?