L’incontro di Liliana Segre con gli studenti di Monza e Brianza: «Impegno contro intolleranza e istigazione all’odio» – VIDEO

VIDEO - La senatrice a vita Liliana Segre ha incontrato 800 studenti di Monza e Brianza. Sopravvissuta ad Auschwitz, ha raccontato la persecuzione e l’indifferenza vissuta dopo l’emanazione delle leggi razziali. Ha presentato una proposta di legge in Senato contro gli hate speech. Monza le ha detto: “Grazie”.
Monza la senatrice a vita Liliana Segre, 88 anni,  al Teatro Manzoni martedì 18 dicembre 2018
Monza la senatrice a vita Liliana Segre, 88 anni, al Teatro Manzoni martedì 18 dicembre 2018 Fabrizio Radaelli

Alla fine di un’ora di racconto di una vita, in un silenzio assoluto, tra gli ottocento studenti delle scuole di Monza e Brianza si leva un “grazie”, squillante e solitario. Un grazie a Liliana Segre, sopravvissuta ad Auschwitz, senatrice della Repubblica dal gennaio di quest’anno, tornata a Monza, per parlare ai ragazzi a 80 anni dall’emanazione delle leggi razziali.

Sul palco, sono tantissimi a voler stringere la mano, dirle personalmente grazie, per il dono della sua testimonianza di sopravvissuta ad Auschwitz.

“Cosa vuole chiedermi ancora che non abbia già raccontato?”, mi domanda sorridendo e accarezzandomi il viso.

Parliamo di oggi, dell’attualità del suo messaggio, di quello che prova davanti alla violenza che pervade discorsi politici, la vita quotidiana.

“In Senato – dice – ho presentato un disegno di legge contro gli hate speech, i discorsi di odio. Vorrei che si istituisse una commissione parlamentare d’indirizzo e controllo sui fenomeni dell’intolleranza, razzismo e istigazione all’odio sociale. C’è violenza non solo in politica, ma anche nelle riunioni condominiali, in auto durante un sorpasso…”.

Liliana Segre parla volentieri soprattutto dei giovani: “Mi sento la loro nonna, ho tre nipoti maschi, i miei gioielli che hanno la stessa età di questi ragazzi. Quando sono diventata nonna del primo, Edoardo, ho capito che era arrivato il momento di iniziare a parlare, raccontare la mia storia. Lo faccio per quei sei milioni di persone che non hanno potuto tornare e raccontare”.


“Non posso avere la certezza che tutti recepiscano il mio messaggio, ma qualche volta vedo i risultati. Non mi illudo che siano tutti candele della memoria, ma se anche solo uno porterà questa testimonianza con sé sarà valsa la pena”.

Il racconto di Liliana Segre del resto è partito con una richiesta: “Toglietemi per favore questa luce dagli occhi, perché voglio vedere i volti di questi ragazzi, voglio raccontarvi una storia che è la mia, personale e vera”.

Così, quasi guardandoli uno per uno racconta di Liliana bambina: “Perché anche quando diventerete tanto vecchi come me, voi resterete i ragazzi che siete oggi, ognuno resta quello che è stato”.

La memoria torna a quell’estate del 1938, a lei orfana di mamma, cresciuta in una famiglia ebrea della piccola borghesia milanese, non religiosa. La “principessa” di papà Alberto. È proprio lui a doverle dire che è stata espulsa da scuola. “Ma perché? Cosa ho fatto di male?”. Una domanda che ancora la agita, a cui non ha trovato una risposta.



Subito ricorda anche l’indifferenza, parola che ricorre spesso nei suoi discorsi e campeggia a caratteri cubitali sul palco del Manzoni.
Ricordo l’indifferenza del maggior parte degli italiani, in pochi hanno continuato ad invitarci e a parlarci. Della maestra e delle ex compagne mi indicavano sghignazzando mentre passavo davanti al cortile di quella che non era più la mia scuola”.

Tra le famiglie ebree di Milano c’è chi inizia a pensare di partire, lasciare l’Italia per gli Stati Uniti: “Si salvarono tutti. Genitori, figli, nonni persino il servizio dei bicchieri”. Ma per il papà di Liliana la decisione di partire arriva troppo tardi, frenato dalla preoccupazione di lasciare soli gli anziani genitori malati.

Per scappare dalle bombe su Milano anche Liliana come molti milanesi trova rifugio in Brianza, a Inverigo, poi inizia a nascondersi da amici “eroici” quelli veri che rischiano la propria vita nella speranza di salvare lei.

“A caro prezzo mio padre ottiene documenti falsi, ricordo contrabbandieri truci, interessati al denaro – dice – li ho paragonati ai trafficanti di uomini di oggi, a chi organizza i barconi dalla Libia”.

La felicità di essere quasi salvi dopo una notte in montagna per arrivare al confine svizzero dura poco e si scontra con il ghigno di un gendarme svizzero: “Ci guardò con disprezzo enorme, ci disse che eravamo imbroglioni che non era vero che eravamo perseguitati, che volevamo solo fuggire dalla guerra. Mi buttai ai suoi piedi, gli stringevo le gambe, piangevo. Non ci fu nulla da fare”.

Liliana Segre racconta questo episodio e la recente visita a Lugano dieci giorni fa quando il consigliere cantonale ha voluto chiederle scusa. “È stupefacente che ci siano voluti 75 anni per queste scuse e solo ora che sono diventata senatrice”.

Quel gendarme svizzero cambia il corso della sua vita. Sarà arrestata con il padre portata al carcere di Varese, poi Como e San Vittore, mentre i nonni furono deportati e gasati dopo che qualcuno ne denunciò la presenza in cambio di 5mila lire.

Chiusa a San Vittore a 13 anni senza aver fatto nulla di male, Liliana Segre attende il padre che era sottoposti ad interrogatori violenti. “Abbracciavo quel padre che era diventato anche fratello, figlio. Un padre che si sentiva perdente, che non poteva darmi risposte, che aveva il rimorso di non avermi portato via prima”.

Segue il lungo racconto del viaggio dal binario 21, quello delle merci e degli animali, ma prima di lasciare San Vittore Liliana Segre capisce cosa sia la pietà umana. “I detenuti comuni che ci videro uscire in fila ebbero gesti straordinari. Ci gridavano che Dio vi benedica, qualcuno ci diede un frutto”.

I sette giorni di viaggio furono gli ultimi trascorsi con il padre: “Un vagone promiscuo, con un secchio per i bisogni che si riempi subito, 600 persone stipate, senza acqua . I treni per Auschwitz avevano la precedenza su tutti, nessun macchinista si fermò, nessun capostazione intimò l’alt”. Indifferenza appunto.

Arrivati ad Auschwitz lasciò per sempre la mano del padre che non rivide più.

“Sono sopravvissuta per caso – dice – non sapevo le lingue, ero una bambina tredicenne, ma fui scelta per fare l’operaia- schiava, fu la mia salvezza perché lavoravo al coperto”.

Rasata, tatuata, con un corpo che non era più il suo, lavora in una fabbrica di munizioni. È qui che incontra un professore di storia belga.
“Avevo l’età di sua figlia che non c’era più. Io gli portavo il materiale e lui mi dava brevi lezioni di storia. Era il momento in cui ci sentivamo ancora liberi: lui professore, io studentessa di seconda media”.

L’altro incontro che segna la sua vita è quello con Janine , l’operaia francese a cui la macchina aveva troncato due falangi. “Alla selezione io passai , lei fu bloccata. Ero così felice di essere ancora viva che non fui capace di pietà, non mi voltai. Ero diventata una lupa, affamata ed egoista. Fui vigliacca. Non le dissi nemmeno “Coraggio””.

Il 27 gennaio 1945 arrivano i russi ad Auschwitz e per Liliana Segre inizia la marcia della morte. Settecento chilometri dalla Polonia alla Germania, un passo davanti all’altro, senza cadere, senza potersi appoggiare a nessuno”.

Un gruppo di soldati francesi le dicono di resistere: “La guerra sta per finire, i tedeschi perdono su due fronti”. Lei e altre due italiane sopravvissute, sono ormai degli ectoplasmi. Alla fine di aprile vedono aprire il cancello del campo, dopo il grigiore del lager c’è il miracolo di calpestare un prato di primavera.


“I soldati tedeschi abbandonano le divise, si mettono in borghese davanti a noi. Ho l’immagine di un generale che si toglie la divisa davanti a me, getta la sua pistola per terra. Sta scappando dalla sua famiglia, dai suoi bambini. In quel momento ho avuto forte la tentazione di prendere quella pistola e ucciderlo”.

“Stavo per chinarmi, ma per fortuna non lo feci. Capii la differenza tra me e il mio nemico, io avevo scelto la vita ero diversa da lui e in quel momento sono diventata quella donna libera e di pace che sono anche adesso”.

L’INTERVISTA

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