E se la corona ferrea di Monza non fosse la corona ferrea?

La corona di Agilulfo fu presa a Monza dalle truppe napoleonica come tassa, in Francia venne rubata e fusa: era il 1804. A distanza di due secoli la ricercatrice Roberta Delmoro formula su quel tesoro un’ipotesi nuova, che si traduce così: e se la corona ferrea non fosse la corona ferrea?
La corona di Agilulfo
La corona di Agilulfo

Molto semplice: e se la corona ferrea non fosse davvero la corona ferrea? Fa un po’ impressione, no? Eppure gli studi scientifici potrebbero aprire una nuova porta sulla storia del tesoro del duomo di Monza. Studi che non tolgono nulla al valore della corona del ferro di Teodolinda, al suo valore storico, al suo significato all’interno della centralità della città nella storia della città come capitale longobarda e ai suoi gioielli come testimonianza, e simbolo, dei regni e degli imperi che hanno attraversato la storia dell’Europa lungo i secoli. Ma ne spostano la traiettoria e ne riscrivono, in parte, il senso. Ipotesi, ovvio: ma confortate dai dati, messi per la prima volta in mano alla comunità scientifica per trovare nuovi riscontri, verificarne le premesse, discuterne le conseguenze.

Il punto di arrivo è uno: la corona ferrea non è la corona ferrea. Non quella, non quella pensata per incoronare re e imperatori. Il punto di partenza è un fantasma: la corona di Agilulfo, di cui si sa questo, che è stata mandata a far fondere come tassa per i francesi di Napoleone, che è stata salvata perché troppo preziosa, che è stata portata a Parigi dalle truppe e poi trafugata dal Cabinet des médailles della Biblioteca nazionale di Francia e quindi sì, fusa. Per farne soldi. C’è una data per quest’ultimo fatto: la notte tra il 16 e il 17 febbraio del 1804. È da lì che parte Roberta Delmoro per ricostruire la storia di una – una – delle corone che sono state conservate dal duomo di Monza nei secoli e per formulare l’ipotesi che la vera corona dei re e degli imperatori fosse quella di Agilulfo e non quella che Teodolinda offre in dono a Giovanni Battista nei bassorilievi della basilica monzese e che è rimasta in città ancora oggi.

Il saggio è uno degli studi che compongono il secondo volume di Storia illustrata, l’annuario diretto dalla stessa Delmoro per raccogliere, una volta all’anno, le proposte scientifiche che riguardano la città e ne tracciano gli sviluppi scientifici di anno in anno. Nel 2014 (pubblicazione 2015) e nel 2015 (per Aracne editrice, 236 pagine, 17 euro) la collana ha consegnato una silloge di analisi aggiornate sul patrimonio culturale e storico della città concentrato soprattutto sul duomo e sulla cappella di Teodolinda, restituita lo scorso anno al pubblico dopo una lunga campagna di restauri.

Roberta Delmoro, attenta studiosa della famiglia Zavattari cui vanno ricondotti gli affreschi di Teodolinda, ha consegnato alle stampe uno studio diagonale: “Corona una ari in qua imagines apostolorum videntur sculptae”, cioè “Note sulla Corona di Agilulfo e su altri pezzi perduti del Tesoro del duomo monzese”. La frase latina è la descrizione di una corona fatta da Baldassarre Cipolla, inviato in città da Federico Borromeo alla fine del XVI secolo in visita pastorale. Una questione di inventari, qui, cioè degli elenchi delle proprietà del Tesoro del duomo lungo i secoli. Dove la corona di Agilulfo o meglio, le corone di proprietà del capitolo, non corrispondo ai numeri che gli elenchi ne tracciano, almeno tra due e trecento: ma lì ci deve essere la corona destinata all’investitura dei re e degli imperatori, secondo un “Ordo”, ordine, protocollo, ben definito nei secoli successivi. Nel giugno del 1353 le corone sono quattro, dopo la cattività avignonese, in un elenco stilato per l’arcivescovo di Milano da Anelotto da Bracciforte, orafo milanese. La corona di Agilulfo non sembra comparire in quella descrizione. Mentre ci sono sì una corona ferrea (o meglio una corona auri ornata uno circolo ferri) e una corona di Teodolinda (corona auri ornata, lapidibus pretiosis minutis). Coeva, dopo la restituzione a Monza del 1345, è la lunetta del portale del duomo, dove si trovano quattro corone dorate e gemmate, inclusa quella che Teodolinda offre a San Giovanni e che oggi conosciamo. Ma manca, sottolinea Delmoro, una “corona ornata di arcatelle e figure che trasmetta la fisionomia inconfondibile della corona di Agilulfo, che, data l’iscrizione di offerta, avrebbe dovuto trovare posto tra le mani dello stesso re”. Quella corona non c’è allora negli inventari, dice la ricercatrice, e non c’è nella lunetta.

Per Delmoro bisogna andare un po’ avanti per trovarla, dopo avere fatto i conti con la sua assenza negli inventari monzesi fino alla seconda metà del Trecento. E’ in quell’epoca che Monza, per bolla papale, diventa sede per l’incoronazione degli imperatori: lo decide ad Avignone Innocenzo VI, nel dubbio che l’arcivescovo milanese Roberto Visconti “non fosse disposto a celebrare l’incoronazione imminente di Carlo IV di Lussemburgo”. Il piano B del papa era Monza, cui veniva affidata la “corona del ferro” e la possibilità, per l’arciprete monzese, di porre la corona sulla testa dell’imperatore. Monza, la città filo-imperiale.

Secondo la ricercatrice risale a quell’epoca la volontà del duomo di aggiungere una corona (del ferro) al Tesoro, per volontà dell’arciprete e patriarca di Costantinopoli Guglielmo della Pusterla. L’ipotesi è che la corona sia stata fatta realizzare con “pezzi di riuso, forse ricavati da calici liturgici bizantini ornati con figure a sbalzo, e nuove inserzioni”: di certo la sua descrizione non corrisponde a quella della altre corone presenti a Monza. Di più: nel 1530 la descrizione della lastra dell’incoronazione (una policromia oggi persa) del pulpito di Matteo da Campione, segnalava la presenza di cinque corone, le quattro del lascito di Teodolinda, scrive Delmoro, più la corona ferrea, “restituita nel rilievo con le forme gigliate di un gioiello gotico, posta sul capo del re/imperatore incoronato dall’arciprete monzese paludato in abiti arcivescovili” (manibus imponentis corona ferream in capite statuae Caesarem repraesentantis). “Poiché Capredono (Giacomo, castellano di Monza, su incarico di Milano, ndr) il Tesoro e la Lastra dell’incoronazione li aveva visti, fatti ispezionare e descrivere con l’aiuto dei canonici e dei fabbricieri di San Giovanni Battista, su preciso incarico del duca di Milano e per volontà del futuro imperatore Carlo V d’Asburgo, dettando l’atto nel palazzo del Comune di Monza al notaio milanese Giovanni Battista Vecchio, non credo vi sia motivo di dubitare del fatto che le corone conservate a Monza, entro il 1530, fossero cinque”, l’ultima delle quali investita del ruolo di simbolico nel cerimoniale di incoronazioni dei re di Lombardia, cioè d’Italia, perché Agilulfo era Rex totius Italiae, re dell’Italia intera. Per Delmoro allora (1376) la quinta corona era quella del ferro, che nell’ordine delle incoronazioni era quella che spettava al regno sull’Italia prima di quello sulla Germania e quindi dell’Impero, le tre cerimonie previste. La corona ferrea, appunto. Che non corrisponde alle altre quattro corone di Teodolinda, ma alla descrizione della corona di Agilulfo.

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Ma, dice Delmoro, intorno alla metà del XV secolo si andò identificando la corona del ferro con la “corona parva, cum uno circolo ferri” con la corona destinata a cingere (simbolicamente) il capo degli imperatori, ruolo che spettava a quella di Agilulfo. Molto prima che quest’ultima, di cui si trova ancora traccia in alcuni disegni del Settecento conservati a Vienna, non sparisse dentro un forno di Parigi.

“Monza Illustrata 2015” è il secondo volume della collana diretta da Roberta Delmoro e pubblicato da Aracne, con saggi di Alberto Crespi, Paolo Di Simone, Anna Lucchini, Luca Pietro Nicoletti, Damiano Spinelli, Daniela Veronesi. Con la sola eccezione di Crespi (che si occupa dei disegni di Pino Ponti alla collezione Crivelli Gardenesi di Trezzo), gli altri studi sono riconducibili al duomo, agli affreschi di Teodolinda e al tesoro. Anche quando si parla di Valentino Vago e alle ispirazioni medievali della sua opera nei primi anni Sessanta. Di Simone in particolare si concentra sulla recente mostra “Arte Lombarda dai Visconti agli Sforza” sottolineandone pregi e limiti, mentre Anna Lucchini, che ha guidato il restauro della cappella, traccia una sintesi degli studi e degli interventi realizzati nella cappella. In più, un testo dedicato all’iconografia del ciclo del Zavattari e alla sua lettura sotto le pressioni del duca di Milano.