Cinema, ecco “Scappo a casa” di Aldo Baglio: «Vi racconto il mio spaghetti eastern» – VIDEO

VIDEO - Giovedì 21 marzo Aldo Baglio arriva nei cinema con “Scappo a casa”, il primo film senza il leggendario trio con Giovanni e Giacomo. L’intervista al CittadinoMb.
Aldo Baglio al cinema col nuovo film Scappo a casa
Aldo Baglio al cinema col nuovo film Scappo a casa

Razzismo? Forse. Ma soprattutto l’idea che non bisogna per sempre essere se stessi. Si può cambiare, certo, come cambia Michele quando deve (davvero) fare i conti con gli altri. Questo racconta “Scappo a casa”, senza quella “d” che racconta fuga altrove. Perché la fuga, in questo caso, è un treno di ritorno. Da un mondo che sembrava amico e forse, a un tratto, non lo è. Come in un western, un’avventura ai limiti.
«Ma uno Spaghetti eastern, perché parte da Budapest», profondo est, est europa, dove oggi soffiano più forti i venti della chiusura agli stranieri.

Il 21 marzo, giovedì, il giorno in cui arriva nelle sale il primo film ideato e guidato da Aldo Baglio, monzese, attore, comico, una vita di successi con Giovanni e Giacomo nel trio che ha fatto la storia della comicità nell’ultimo ventennio.

Ora la prima avventura in solitaria, con un soggetto scritto con Valerio Bariletti e Morgan Bertacca e diretto da Enrico Lando.
«Mi sono molto divertito più a scriverlo che a farlo. Ma è stata una bella esperienza. Questa volta tutto dipendeva da me, il che mi ha fatto fare cose che non avevo mai fatto nella vita. Col trio deleghi tanto, sei tranquillo, protetto, ti fai gestire: in questo caso ero il mio motore e dovevo attivarmi. E forse per la prima volta l’ho fatto».



Finora? Risposte positive?


«Sì, il punto è che nessuno viene sotto casa a dirti che fa schifo, quindi aspettiamo».

Fa i conti con l’attualità: un settentrionale che si trova tutto a un tratto sans papier, clandestino, deve tornare a casa come tanti oggi cercano una nuova casa.

Molte persone lavorano su questo tema. A un certo punto avrei voluto andare in un’altra direzione. Poi ho deciso di raccontare la mia storia. Perché l’ho fatto in modo divertente e perché in fondo non voglio parlare di immigrazione. La storia racconta un cambiamento, il resto è venuto di conseguenza.

Il cambiamento di un bauscia…

«Sì, molto sintetizzato è così: lo uso la prossima volta che mi intervistano, bauscia… Lui scopre di avere una coscienza che aveva, anche se sopita in una angolo, un fatto che lo mette in difficoltà e gli dà la dimensione di quello che è più importante. La coscienza è quella cosa lì: una spina nel fianco. Noi tutti stavamo bene quando eravamo incoscienti, in fondo è questo il senso di quando parliamo “degli anni più belli della nostra vita”. Michele è spensierato, fa quello che lo porta a trovare le cose nella vita senza prendersi responsabilità, il meglio sempre, anche quando deve pestare i piedi agli altri.

D’accordo: com’è nato il film?
La scrittura? Un paio di mesi per avere un soggettone, poi abbiamo chiuso aspettando la produzione. Ci siamo detti allora: va be’, la sceneggiatura la scriviamo quando abbiamo un contratto, perché si correva il rischio non la comprasse nessuno. Poi invece è successo e ci hanno dato dei tempi.

Cosa succede dopo?
Firmato il contratto le cose iniziano a muoversi: le location, i casting, il piano di produzione, il piano di lavoro… a livello produttivo è stato uno sforzo notevole.

Hai mai pensato di girare qui a Monza?
Qui? Secondo me si può fare, ma con altro tipo di produzione: l’idea di fare un film su Monza non è male, raccontare il posto dove vivi. Chissà che un giorno succeda qualcosa.

D’accordo, ma Michele, il protagonista bauscia, può vivere a Monza?
Sì certo, alla fine è un alter ego mio, e io vivo qui. Vedo quella che è la mentalità della Brianza, vedo un trapiantato al nord da meridionale che ha avuto i genitori che si sono mossi da un posto all’altro. Ma si tende a dimenticare quello che si è passato. Noi quando siamo andati all’estero, per esempio: mio padre è andato in miniera in Francia e allora la fatica di entrare in un posto. Ma i tempi sono cambiati: una volta dove si andava si andava, un posto di lavoro si trovava. Oggi non è così, viviamo in periodo storico molto diverso. Mia suocera si è trasferita in Svizzera, i nostri genitori hanno dovuto scegliersi un altro posto. Ma lì hanno trovato occasioni. I tempi sono cambiati.

Il tuo protagonista, per altre ragioni, finisce all’Est.
A Budapest. Una commedia. Che ha anche una citazione western da Sergio Leone. E così abbiamo pensato che si potesse chiamare uno “spaghetti eastern”.



Pronto per il debutto?
Cosa mi aspetto…. si affronta tutto. Io l’ho fatto per me, mi sono divertito: vorrei che avesse quel seguito che basta per farne un altro per buttarmi ancora in solitaria. Sono due cose diverse lavorare con il trio e da solo, non vorrei rinunciare a nessuna delle due. Ci si migliora sempre. Per questo vorrei capire il mondo del cinema, anche se davvero non lo capisci mai fino in fondo: è affascinante, la produzione è un reparto complicatissimo. Per questo film mi sono fatto dare una mano da chiunque. Ma nel prossimo vorrei essere più libero, avere meno timori, riuscire a esserci su tutte le cose, come non sono riuscito a fare. Il mio sogno è avere la prossima volta un film che costasse meno e che mi permettesse per questo di essere più libero. Non dico sperimentare. Ma sperimentare me stesso sì. Magari con tempi più dilatati, perché in una produzione come questa corri. Messe le basi – bum – devi fare. Vorrei avere più respiro.

E da cosa partire?
La macchina. La cosa più importante è il piano di lavoro, serve una ricerca meticolosa, è un vantaggio enorme.

Ma fino a fare la regia?
Una paura enorme. Mi piacerebbe essere il motore, ma con una squadra importante, a partire dalla sceneggiatura. Anche in questo film è stato bello avere una squadra, perché sono stato molto disponibile, si è creato affetto, si è trovata non dico una famiglia, ma una squadra. C’era sempre voglia di sorrisi, una battuta, cazzeggio. Ci ha dato energia. C’è lo zampino di tutti.

Anche del coprotagonista Jacky Ido?
Noi come Bud Spencer e Terence Hill. Non pensavo di averlo, quando mi sono invaghito di lui perché era perfetto ho detto: proviamo. Ha detto sì. Lui non sa l’italiano e imparava le battute la sera. Io mi presentavo la mattina dopo avere cambiato il copione. Mi diceva: bravo, è perfetto. E lo imparava. È stato magnifico, come Fatou N’Diaye, che buca la camera. È splendida. E matta. Lavorare con loro mi ha dato tanto.