Arte, Paolo Maggis in mostra alla Villa reale di Monza – FOTO

FOTO - Alla Villa reale di Monza fino al 25 febbraio c’è la mostra “15 milioni di K” dell’artista vimercatese Paolo Maggis. I 15 milioni di K sono i Kelvin necessari per la formazione di una nuova stella e di quelli che si registrano al centro del sole. La misura della formazione dell’esistenza.
Monza: Paolo Maggis ritratto con una delle sue opere
Monza: Paolo Maggis ritratto con una delle sue opere Fabrizio Radaelli

Se il punto di riferimento è una colonnina di mercurio la differenza si sente: confondere i gradi Celsius e i Kelvin è uno sprofondo che in cifre è un decimale e mezzo in più di 273. E se bisogna fare i conti con la temperatura di congelamento e quella di ebollizione dell’acqua, meglio starci attenti. Ne va quantomeno della pasta che si aspetta di portare in tavola.

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Ma se l’ordine di grandezza è 15 milioni, in fondo che importa, verrebbe da dire: non sarà quella differenza a fare la differenza. E invece vale la pena di parlarne: perché “15 milioni di K” è una stima precisa. Quella del cuore del Sole, quella necessaria alla materia esplosa di una supernova a ritrovare la strada per farsi materia e fare una nuova stella. Energia allo stato puro, primordiale, incommensurabile. Lì si è andato a schiantare Paolo Maggis. Su una supernova che nelle immagini trasmesse alla Terra dal telescopio Kepler ha visto la traiettoria del suo pennello e la grammatica della vita che decideva di scomparire e tornare tale, vita.

Così: “15 milioni di K” significa 15 milioni di Kelvin ed è il termometro e il titolo della mostra con cui l’artista nato a Vimercate torna a riassumere in una personale quasi vent’anni di ricerca, di viaggi, di scelte e occasioni che lo riportano non troppo lontano da dove tutto è iniziato.


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Apre il 25 gennaio al Serrone della Villa reale di Monza e racconta quello che è successo a qualcuno che allo scavallo del secolo (e del millennio) è stato tra i protagonisti della nuova figurazione italiana, di matrice fortemente milanese. Non ha cambiato registro, Maggis, né lo ha rinnegato: lo ha amplificato, piuttosto, ne ha fatto un cumulo di intenzioni che hanno sintonizzato le architetture teoriche di cui è sempre stato molto consapevole in qualcosa che sta un poco più in là, in un terreno friabile, tanto consapevole quanto intuitivo, in cui voltare pagina è un’esigenza e si sa come andrà a finire: si riconosce la penna dello scrittore che ha saputo in una volta infagottare l’accademia di ieri e la strada di oggi.

Sono passati sette anni dall’ultima volta che Maggis ha esposto in città: allora era la galleria Marcorossi e il predicato teorico attorno al quale si muoveva il pennello dell’artista insisteva sul sistema di percezione dell’occhio rispetto all’immagine. A distanza di quasi un decennio la prospettiva cambia: oggi Maggis non si preoccupa di descrivere sulla tela quello che il pubblico dev’essere in grado di percepire ma quello che lui, l’artista, è capace di sintetizzare.

«Ho visto quel video del telescopio Kepler – raccontava a pochi giorni dall’inaugurazione – e ho visto la materia esplodere e creare le condizioni per ricostruirsi in una nuova stella. Mi sono detto: sono le mie pennellate. La mia pittura» fatta di quello che in Europa è la struttura stessa dell’arte, diversa da quella orientale: fatta dell’esigenza di un punto focale in cui tutto, prima lo sguardo, converge.

«Ma ho capito che è opera in sé, senza bisogno di una narrazione, senza l’esigenza di essere descritta: una struttura pretestuale che ha ragione di esistere in quanto tale, che corrisponde piuttosto alla musica» e forse allo spartito in grado di generare energia senza bisogno di avere parole che lo spieghino.

«Ho capito due cose – aggiunge Maggis – Intanto che l’arte è capace di portarmi in uno stato ulteriore. Non si tratta di un “fuori”, di trascendenza, ma della capacità di andare al di là, a vari livelli di profondità. E poi che in tutta la vita non sono mai stato capace di fidarmi di me stesso. E allora mi sono chiesto dov’ero io».
Dov’era quando dipingeva, nell’artista che soppesava colori, pennelli, tratti dell’opera o in chi riconosceva che quello che aveva davanti era il punto di arrivo. Non il contesto di uno spazio da decorare per rispondere a un dettato fatto dalla consuetudine o dalle esigenze reali o presunte del pubblico.

«Solo che fidarsi di se stessi è un casino – ammette Maggis – Non si tratta di fermarsi all’istinto. È qualcos’altro: è riuscire a fare in modo che tutto il tuo essere sia un uno. Non viene meno l’aspetto analitico, perché l’analisi in fin dei conti accade a prescindere da me. Nella tela c’è istinto, c’è ragione, stato d’animo, ci deve essere tutto. Ma è perfetto soltanto quando accade avvertendo il proprio essere come una sola cosa».

Tra Maggis e Maggis è successo molto: la nascita di un figlio, la perdita di un uomo che ha significato l’incarnazione della libertà con cui ha condiviso lo studio in Catalogna, il regista Bigas Luna, la scelta di affrontare qualche inciampo di salute con nuove possibilità.
«Per questo è cambiato tanto e sono arrivato qui. Perché in fondo Bigas aveva ragione: l’arte è la libertà, altrimenti a che cosa dovrebbe servire? mi domandava». Il risultato è una mostra organizzata dal Consorzio Villa reale (e fortemente voluta dal direttore generale Piero Addis) e curata da Valentina Casacchia, che occupa il Serrone fino al 25 febbraio (viale Brianza 1, da martedì a venerdì 10-13 e 14-18, sabato e festivi 10-19.30, ingresso libero).

«Perché Monza? Un caso. Ma sono ben felice di esserci: questa è la mia terra».