29 luglio 1900, troppo facile uccidere Umberto I: così sono nati i servizi segreti

29 luglio 1900: a Monza viene ucciso il re Umberto I. Un saggio di Donato D’Urso ricostruisce i fatti, l’assassinio e la riforma della polizia voluta (poi) da Giolitti. La nascita di una polizia moderna e dei servizi segreti.
Monza, il regicidio di Umberto I
Monza, il regicidio di Umberto I FABRIZIO RADAELLI

Buchi enormi in quel che si suol definire l’apparato di sicurezza di uno Stato nei confronti della sua massima autorità, allora rappresentata dal re Umberto I, ucciso a Monza la sera del 29 luglio del 1900, una domenica praticamente a poche decine di metri da quella Villa reale nella quale stava trascorrendo le vacanze con la consorte, la regina Margherita di Savoia.


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E, incredibile ma vero, il Parlamento italiano di fronte alla tragedia dell’uccisione del re, esaurita la solenne e ineludibile commemorazione, pensò bene di chiudere velocemente per le vacanze rimandando il dibattito su quanto accaduto addirittura di quasi quattro mesi, il pomeriggio del 27 novembre. E risolvendo il tutto in poche ore con frettolosi interventi delle opposizioni e risposte del governo allora presieduto dal quasi ottuagenario Giuseppe Saracco, che era anche ministro degli interni e che era in carica solo dal 24 giugno (vi resterà peraltro soltanto sino al 15 febbraio seguente). Ironia della sorte si trattava di un governo cosiddetto di “pacificazione nazionale”.

Senza fare paragoni o parallelismi con la situazione odierna, se non qualche accenno, Donato D’Urso, storico, autore di numerose monografie ed articoli sul Risorgimento, nonché sulla storia politica e amministrativa con particolare riferimento alla pubblica sicurezza, ripercorre le vicende che si svolsero a Monza 115 anni orsono in un ampio saggio pubblicato sull’ultimo numero di “Storia in Lombardia”, rivista quadrimestrale edita da Franco Angeli.

D’Urso dedica il suo lavoro dal titolo ”Il dibattito sulla sicurezza dopo il regicidio di Monza” proprio ed in particolare alla discussione parlamentare ma, soprattutto nella prima parte ripercorre quasi ora per ora quanto avvenne quel 29 di luglio.

Il re accettò infatti di presenziare alla premiazione del concorso ginnico della gloriosa Forti e Liberi dietro invito e insistenza dell’unico deputato monzese del tempo, l’avvocato radicale Oreste Pennati e della giunta comunale a seguito di un incontro, cosa mai avvenuta, che il sottoprefetto Gaetano De Pieri, da pochi mesi in città, considerava un suo successo politico (a quel tempo Monza con il Circondario, poi soppresso dal fascismo, godeva di una autonomia amministrativa e di uffici decentrati dello Stato tra i quali una sottoprefettura. Ndr.). Secondo gli accordi presi la visita alla palestra sarebbe dovuta avvenire nel pomeriggio, tra le 6 e le 7 e in tal senso venne organizzato il servizio d’ordine a cura di una sessantina tra guardie di città (la polizia di oggi) e carabinieri. Sostanzialmente il contingente previsto quando il re soggiornava a Monza, ma standosene in Villa reale. Il caldo afoso di quella domenica fece sì che Umberto I decidesse di spostare la sua presenza alla Forti e Liberi a dopo cena, usando una carrozza scoperta (Daumont a doppia pariglia) e senza indossare sotto il panciotto la maglia d’acciaio che aveva talvolta usato negli ultimi tempi. Non va dimenticato infatti che il sovrano era già sfuggito ad almeno altri due attentati (più un terzo mai del tutto acclarato) da quando era salito al trono nel 1878.

A tutto ciò si aggiunga l’ostilità del re a vedersi circondato da guardie di qualsiasi tipo, a cominciare dai corazzieri peraltro istituiti proprio per la sua sicurezza personale e che infatti a Monza non c’erano (maliziosamente si potrebbe osservare che in tal modo potevano passare più inosservate le sue scappatelle in quel di Vedano dall’amata duchessa Eugenia Attendolo Bolognini Litta. Ndr.).

Fatto sta che malgrado con il buio fossero mutate le condizioni di sicurezza, a parte qualche fanale collocato per illuminare meglio il tragitto dalla villa alla palestra, le disposizioni sulla vigilanza restarono quelle previste per l’orario diurno: un cordone all’ingresso da parte di militari allettati da un prezzo d’ingresso irrisorio ma che una volta entrato il re in palestra se ne andarono per conto loro, nel prato, in mezzo al pubblico, a sua volta particolarmente numeroso proprio per la presenza del sovrano. Cosicché intorno alle 22,30 quando Umberto I tornò alla carrozza per fare rientro in villa di militari non ce n’era nemmeno l’ombra e accadde l’irreparabile: l’anarchico Gaetano Bresci si fece largo all’improvviso e sparò i tre colpi che colpirono il re ad una spalla, al polmone e al cuore, quest’ultimo fatale. Caos, corsa inutile verso la reggia, dove mancava peraltro il medico di corte dottor Erba, soccorso vano da parte del dottor Vercelli dell’ospedale di Monza e del dottor Savio assessore comunale presenti sul luogo dell’attentato.

Conclusione: a pagare furono il sottoprefetto De Pieri sospeso per sei mesi, l’ispettore Leopoldo Galeazzi da anni addetto alla persona del re che messo a riposo (con pensione e vitalizio dal ministero della Real Casa), il delegato di pubblica sicurezza (capo della polizia) Nestore Oliari censurato, il tenente dei carabinieri Emilio Borsarelli trasferito in Sardegna. Oltre ad altri funzionari toscani che non avevano vigilato a sufficienza su quell’anarchico rientrato dagli Stati Uniti, a cui era stato negato il porto d’armi ma che invece se ne stette per giorni a Monza con una pistola in tasca.

L’amara conclusione di D’Urso è che se non altro, proprio a seguito del regicidio, il secondo governo di Giovanni Giolitti avviò importanti interventi, dall’aumento dell’organico della polizia all’avvio della polizia scientifica, allo sviluppo del casellario politico centrale, insomma intelligence, nuovi modelli organizzativi e tecnologie aggiornate. Un po’ come oggi, no…?