Sessant’anni fa “Quattro lombardi (e la Brianza)” di Cesare Angelini per Scheiwiller

Lo storico dell’arte Carlo Franza inaugura la rubrica “BrianzArte”. Sono passati sessant’anni dalla pubblicazione di “Quattro lombardi (e la Brianza)” scritto da Cesare Angelini Vanni Scheiwiller: Carlo Dossi, Pietro Lucini, Ugo Bernasconi e Carlo Linati.
Cesare Angelini con Eugenio Montale
Cesare Angelini con Eugenio Montale

Sessant’anni fa, nel 1961, usciva in una bella collana dell’editore Vanni Scheiwiller un libro singolare di Cesare Angelini dal titolo “Quattro lombardi ( e la Brianza)”, All’Insegna del Pesce d’Oro, Milano, in 16°, mm 175×125, pp. 67, con brossura editoriale rosa, e un ex libris applicato al centro del frontespizio. 

Sessant’anni fa “Quattro lombardi (e la Brianza)” di Cesare Angelini per Scheiwiller
Quattro lombard I(e la Brianza) di Cesare Angelini per Scheiwiller

Faceva parte della collana Narratori, ed era in copie numerate n.1000. Nell’Indice delle prose leggiamo i capitoli: Carlo Dossi scrittore bizzarro, Questo povero Lucini, Bernasconi  a Cantù, Poeta in Brianza (Linati) – La Brianza (ovvero Dossi, Lucini, Bernasconi, Linati e paesaggi brianzoli). Il libro era stato scritto da Cesare Angelini, (Albuzzano, Pavia, 1886 – Pavia 1976) letterato italiano, sacerdote, rettore del Collegio Borromeo di Pavia, il quale aveva anche pubblicato raccolte di saggi che possono ricollegarsi alla prosa d’arte novecentesca: Invito in Terrasanta (1937), Carta, penna e calamaio (1944), Frammenti del sabato (1952) ecc. Come critico si era occupato, con gusto assai vicino alla lezione di Renato Serra, di scrittori e poeti dell’Otto e del Novecento: Il dono del Manzoni (1924), Notizie di poeti (1942), Manzoni (1942), Nostro Ottocento (1970), Cronache di letteratura contemporanea (1971).

Arturo Colombo dell’Università di Pavia sull’Osservatore Romano del 9/10 novembre 2009 ebbe a scrivere: “Perché quasi sempre Angelini ti sorprendeva con quel suo timbro, sempre rasserenante, di uscire dagli schemi, per suggerirti dei percorsi nuovi, dei collegamenti imprevedibili. Certo, aveva le sue preferenze:  oltre a Manzoni e alle figure che spiccano in Nostro Ottocento (edito da Boni nel 1970), per esempio, Renato Serra, che considerava “il nostro vero maestro di lettura, d’infallibile gusto” oppure Carlo Dossi, cui si era accostato “negli anni del primo dopoguerra, tra il 1919 e il 1920, attraverso l’amicizia di Carlo Linati” e che ammirava per la costante “fedeltà lombarda”:  un’immagine che secondo Angelini valeva più di un elogio…”. Un libro su taluni scrittori della Brianza, nomi e scrittori di mirata importanza nel panorama della letteratura italiana contemporanea.

Nel libretto intanto troviamo un capitolo esemplare su “Bernasconi a Cantù”. Del pittore e scrittore Ugo Bernasconi ( Buenos Aires 21 maggio 1874 – Cantù 2 gennaio 1960) Angelini dice: “A ottantatré anni suonati, gli è rimasta tanta persona quanto basta a portare in giro la meraviglia dell’anima. Vederlo nella sua casa alta di Cantù, fievole e minuto e sempre in moto, dentro il camice troppo largo e la barbiccia dove trascolora un ricordo di antichissimo biondo, Bernasconi ha l’aria di un monaco consumato sui libri che insegnano la saggezza del vivere e dell’invecchiare con grazia”. Ma chi era in realtà Ugo Bernasconi? La sua nascita a Buenos Aires, gli studi di lettere a Milano, quelli di matematica a Pavia, il viaggio in Francia dove conobbe Carrière, che gli fu maestro di stile e di vita; e poi i nuovi viaggi in Spagna, in Svezia, in Norvegia, guardando e dipingendo il mondo.

A Cantù, si ritirò nel 1919 per recuperare la salute dopo una malattia contratta in guerra, e ci viveva e lavorava da ormai quarant’anni. Ma, se aria, luce e atmosfera di Brianza, circola nell’opera di Bernasconi, è in quella del pittore, non in quella dello scrittore; perché il solo libro (in principio era scrittore) fu scritto a Parigi nel 1902, e pubblicato a Milano nel 1914, in piena “ Voce” col titolo lievemente umoristico di Uomini e altri animali. Quando uscì, trovò la miglior critica attenta, ma Renato Serra, che allora scriveva su “Lettere”, non s’accorse di lui, perché avuto in mano il volume, lo guardò e non gli parve gran cosa, in realtà vi trovò “poca felicità”, che stava per felicità espressiva, ch’egli trovava magari in D’Annunzio giacchè in Bernasconi lo stile è un po’ trasandato e illuministicamente intriso delle lezioni d’altri lombardi, ovvero il Beccaria e i fratelli Verri.

Nel 1920, quando Papini e Pancrazi pubblicarono Poeti d’oggi (oramai poeti era sinonimo di scrittori, scrittori nuovi, come si diceva, e gli effetti della poesia erano risolti nella prosa), Bernasconi vi ebbe il suo posto onorato. Le pagine che lo rappresentavano, naturalmente eran tolte da quell’unico libro, al quale Bernasconi s’era fermato; se altro aveva scritto, erano pagine di gusto ricreativo o di mestiere, come i Pensieri ai pittori, o le traduzioni dai moralisti francesi, Pascal, Montaigne, rivelando l’aspetto aforistico-didattico del suo ricco temperamento. Poi nel 1926, quando Mondadori ristampò il volume, Pietro Pancrazi che non perdeva nessuna bella occasione, potè ancora parlare del “modesto scrittore di un libro solo”. Fu proprio nel 1926 che Cesare Angelini incontro Ugo Bernasconi al “Convegno”, il Circolo che Enzo Ferrieri aveva aperto in via Borgospesso nel palazzo Gallarati-Scotti a Milano, luogo che riuniva il meglio delle lettere e della cultura d’allora. Dice Angelini nel libretto: “Da Cantù, dove viveva solitario, giungeva di rado Ugo Bernasconi, timido e biondissimo e come tinto da un lume interiore.

Pure da Cantù, scendeva il Pastonchi per qualche dizione di poeti, o a parlarci dei Versetti, che andava maturando, e meno ritengono della virtù sonora degli altri suoi carmi. Non abbiamo ancora nominato Carlo Linati ( lo troviamo in un altro capitolo del testo di Angelini, dal titolo “Poeta in Brianza”), che veniva da Rebbio di Camerlata, signorile e bonario, dandoci l’impressione che in quei giorni la poesia fosse un bel vento che ci arrivava dalle ville e dalle strade di Brianza. Linati fu vera colonna della rivista omonima, il Convegno, che tra la Ronda appena morta (1922) e la Fiera letteraria appena nata (1926), per un decennio accolse con un suo criterio antologico il meglio dei nostri scrittori.

Dal Circolo “Convegno” Bernasconi si portava poi a “Bottega di poesia” ch’era lì a due passi, in via Montenapoleone, dove esponeva certi “studi in grigio”, paesaggi e ritratti, come ci ha solennemente confermato Angelini. Con la penna o col pennello, questa era la sua vocazione, fare ritratti. Perché, cos’erano, alla fine, quei suoi “Uomini e altri animali?” Si è parlato di racconti, novelle. In verità, sono qualcosa di meno della novella, perché vi manca l’intreccio; e qualcosa di più perché c’è sempre l’elemento autobiografico che vale assai più della vicenda inventata. Si tratta di figure incontrate in treno, in alberghi, in stazioni termali, ritratti di viaggio come “La servetta delle monache”, perché Bernasconi non è solo pittore, ma letterato e psicologo che esplora le fondamentali attitudini dell’istinto e la fisionomia che esso dà all’uomo e agli “altri animali”. In “Umanella”, per esempio, la gallina in cui si sveglia improvviso l’istinto d’avere una sua covata, sicchè fa il verso, sbriciola minuzzoli di cibo ai pulcini non suoi, li richiama, li difende, li prende sotto l’ala.

Si intravede nella misura breve del poemetto in prosa e nella qualità del linguaggio, l’influsso di Linati dei “Doni della terra” o, meglio, degli “Amori erranti”, con minore sapienza stilistica, ma in più una umanità che non sempre in Linati c’è. Interessante anche l’accenno che fa Angelini a il ritratto di “Grane”, il vecchio cavallo, solo, magro e inattivo in ogni campo romito; ecco la scrittura di Bernasconi: “Una rassegnazione immutabile sembrava essere il riassunto di quella esistenza antica — per quale mai somma di esperienze dolorose, giuntavi? Io avrei voluto accarezzargli il collo, ma non osavo, quasi temendo di indurvi l’ultimo crollo. Gli porsi una pallottola di zucchero, ma non la prese; povero rozzon di fatica, ignaro forse, per tutta la sua vita, d’altro nutrimento che di arida paglia e colpi di staffile” . Un ritratto che da queste poche righe chiude in modo crudamente realistico e di grandiosità portiana.

Angelini ci fa rilevare anche le corpose pagine che Bernasconi scrive di uno scultore che sbozza figure allegoriche sugli scogli del mare, “fiducioso in una sapienza sempre viva e vigile, che d’ogni cosa, anche delle procelle, si vale per compiere un’opera di perfezione”; o altre pagine sulla pittrice, da cui paiono tirati fuori i Pensieri ai pittori: (“L’importante è di simpatizzare con l’essere che si osserva, sia il mare, o la città, albero o persona, una bestia o una nuvola, o magari l’inarcatura d’un ponte o il colore di un tetto, e che solo in un breve attimo d’amore si discoprono molte più cose che non in molti anni di studio”).

Sessant’anni fa “Quattro lombardi (e la Brianza)” di Cesare Angelini per Scheiwiller
Quattro lombard I(e la Brianza) di Cesare Angelini per Scheiwiller

Non è propriamente certo collocare Bernasconi in una linea di tradizione lombarda; in lui vivono dice Angelini “fermentazioni, novità e un vibramento interiore che non lo fa uguale a nessuno. Tuttavia, per certo fondo lessicale tra l’aulico e il dialettale (àlbulo, novezza, arrapinarsi, frisare, ostendere, ecc.) o per il modo di atteggiare l’aggettivo (ripugnoso, sprezzoso, ribrezzevole, torrentuoso, ecc.) vien fatto di richiamare il nome del Linati o magari quello di Lucini. O, piuttosto, di dire che tutt’e tre hanno respirato nelle pagine di un altro signore lombardo: quel Carlo Dossi, che arrivò in tempo ad avere come lettore consenziente lo stesso Alessandro Manzoni. Uomo d’un libro solo (il «pesce d’oro» che di recente gli ha dedicato Scheiwiller ce n’ha rinfrescato il ricordo), Bernasconi come scrittore non ha avuto sviluppi. La sua evoluzione l’ha avuta nell’altra direzione, quella della pittura; dove, attraverso esperienze impressionistiche, post-impressionistiche e luministiche, nella sua solitudine schiva ha percorso il cammino dei migliori, raggiungendo una suggestiva atmosfera tonale di densa poesia. E chi va a Cantù, oggi cerca naturalmente il pittore; il cui nome — dice Ardengo Sofffici — nelle cronache d’arte s’allinea con quelli dei maestri più nobili e alti”. Il poeta Carlo Linati nel 1935 concludendo un efficace ritratto del pittore/scrittore, canturino d’adozione scriveva : “Mi sia consentito di esprimere un disappunto e un desiderio. E cioè che Como, la città che gli ha dato i natali – (in realtà era nato a Buenos Aires da genitori lombardi, ndr) – e alla cui severa bellezza il Bernasconi consacrò alcune tele ricche di profonda verità e di squisita poesia, non abbia ancora pensato di fare una mostra personale delle sue opere. E la cosa mi sembra tanto più strana e imperdonabile oggi in cui ogni regione italiana, con lodevole gara, è spinta a mettere in luce i propri ingegni migliori….”.

Sessant’anni fa “Quattro lombardi (e la Brianza)” di Cesare Angelini per Scheiwiller
Quattro lombard I(e la Brianza) di Cesare Angelini per Scheiwiller

Tenete conto che Ugo Bernasconi è morto a Cantù il 2 gennaio 1960, sessant’anni fa, ma l’antologica sulla sua opera pittorica, non ha ancora visto la luce. C’è da dire che Linati aveva ragione, perché a tutt’oggi ciò è davvero imperdonabile. Viceversa il suo ricco archivio -grazie alla figlia e alla nipote dell’artista, Eletta e Serena Bernasconi Marchi- , nel novembre 2003, composto di carteggi, manoscritti e libri, è stato depositato presso la Scuola Normale di Pisa, per consentirne fruttuosi studi e ricerche.

E veniamo a un altro capitolo dell’Angelini, su “Questo povero Lucini”. Così lo descrive Cesare Angelini: “ Morsicato ancor giovane dall’inesorabile lupus, fu mangiato a poco a poco, arto per arto, fin che morì di meningite a quarantasette anni, il 14 luglio del 1914, nella sua villa di Breglia sul lago di Como. Pietosissima fine per un poeta nato con la passione della bellezza, che è gioia. Ma egli lasciò pur scritto in una veloce Autobiografia: “Là dove tu riscontrerai miglior sofferenza, l’arte sarà maggiore”. Gian Pietro Lucini completa quel particolare quadro di scrittori lombardi che stanno tra l’ultima scapigliatura e il primo futurismo: Rovani, Dossi, lui, Linati, Bernasconi e Botta che, secondo un cliché della critica che risale fino a Boine, dovrebbero somigliarsi come le carte da gioco d’un medesimo mazzo.

Ora, vicinanza c’è, di gusti e d’abitudini e forse d’anima; concorrendo anche il fatto che, vissuti tutti tra Milano e le limitrofe ville della Brianza e del Comasco, la frequenza dei rapporti e degli incontri aveva creato quel senso di camaraderie che giungeva perfino a togliere obiettività ai loro giudizi; anche quando si vantavano (strana fissazione) di discendere tutti dal Manzoni e dalla sua ineffabile arte”.

Collocato tra Carlo Dossi e Carlo Linati, il Lucini non ebbe la freschezza innovatrice del primo, né la coscienza stilistica del secondo, con quegli allegri colori brianzoli che mantengono a ogni sua pagina un mirabile senso di sanità. Eppur l’impegno letterario in Lucini era molto più attivo che in quei due; ma al Lucini è mancato sia il senso dell’armonia, che quello dell’equilibrio, tanto che le sue pagine sono talvolta anche fastidiose. Ma né seppe il Lucini armonizzare il contenuto rivoluzionario che in quegli anni respirava in campo sociale (“il mio pensier rosso”) – le istanze socialiste e comuniste – e lo portava a farsene annunciatore, con la forma aristocratica e raffinata che il dannunzianesimo imponeva in campo letterario; e poi la sua consuetudine con gli alessandrini, e Baudelaire e gli altri “maledetti”.

D’altronde il Lucini era nato nel 1867, e la sua giovinezza s’era svolta tra fine Ottocento e primo Novecento, in piena malattia dannunziana; ed egli, come tanti altri, s’era nutrito e aveva ampiamente respirato certo dannunzianesimo fino a essere tacciato dal Thovez di plagi dannunziani; basti pensare alla lettera-prefazione al “Duccio” di Linati e alla prosa di “Nottole e vasi”. Lucini arrivava persino a scimmiottare D’Annunzio, dicendo: “ Se il giornalismo vuole occuparsi di me, si chini sull’opera mia che è già grande”. E qui Cesare Angelini entra nel vivo della diatriba Lucini- D’Annunzio: “ Come fu dunque che un certo momento gli si mise contro, dichiarò d’averlo superato e scrisse un’Antidannunziana? La conversione non avrebbe meravigliato nessuno, se fosse stata vera. Il guaio è che non s’è mai visto un libro scritto in uno stile più sfacciatamente dannunziano di quello. Per screditare il poeta s’era anche messo a elencare i suoi plagi da Swimburne. Malaccortamente; perché, quando Linati, provveduto di molto inglese, stese un amichevole profilo di Lucini, onestamente non poté tacere che le sue pagine richiamavano spesso (e non solo per il calore lussurioso) alla Swimburne di Anactoria. Lucini aveva dunque seguito il suo poeta in casa d’altri. Aggiungo che, dichiarandosi antidannunziano, il povero Lucini che non sapeva rassegnarsi “a essere un letterato senza seguito”, sognava di sostituire il lucinesimo al dannunzianesimo. Scriveva a qualcuno: “Voglio guadagnar tempo, che non si porti via tutto l’altro”.

Sessant’anni fa “Quattro lombardi (e la Brianza)” di Cesare Angelini per Scheiwiller
Quattro lombard I(e la Brianza) di Cesare Angelini per Scheiwiller

E l’altro era il D’Annunzio. Non si trattava dunque di superamento, che l’avrebbe aiutato a chiarirsi davanti a se stesso, ma di un orgoglioso motivo polemico che complicava le contraddizioni dentro di lui, per il quale D’Annunzio restava sempre il bellissimo nemico”. Né si può tralasciare del Lucini l’esperienza futurista. Nel 1908, il Lucini pubblicò Il verso libero, un volume di settecento pagine in cui ci dava, per così dire, la sua estetica, esponendo o anticipando idee nettamente futuriste. Lo aveva dedicato a Marinetti, alla cui rivista, Poesia, collaborava dal 1905. Nel medesimo anno aveva pubblicato “Il carme dell’angoscia e della speranza”, in versi liberi, che appoggiava la sua estetica.

Ma quando nel 1909, Marinetti pubblicò il famoso Manifesto, fu allora che cominciò l’opposizione e la rottura. Più tardi, sulla Voce del 10 aprile 1913, il Lucini pubblicò un lungo e documentato articolo intitolato: “Come ho superato il futurismo”. E dopo l’antagonismo per D’Annunzio, ecco quello per Marinetti. Spade affilate. Se in parte c’’era del vero nella sua esposizione, si leggeva anche, come osserva Cesare Angelini, “ un chiaro risentimento verso la posizione di capo che Marinetti si era usurpata nel nuovo movimento che, anche per riconoscimento di Silvio Benco, avrebbe dovuto accampare il Lucini come suo vero iniziatore. E il comportamento di Lucini di fronte al futurismo, non è ben chiaro; se lo stesso Papini d’allora lo chiamava “misterioso”. Ma questa è polemica, costume, magari malcostume; rumore che il tempo ha cancellato, facendovi scorrer sopra un silenzio pesante; e di un poeta non ci interessa la sua polemica ma la sua poesia. La quale egli ha raccolto in otto o dieci volumi. Letti in altra e ben lontana stagione, ne abbiamo ricordi come di povere cose”. E a leggere a fondo i versi di quelle Figurazioni (1894) e delle Immagini terrene (1898), nelle tradizionali sestine e ottave, è calata la peggiore imitazione dannunziana, con tracce di visioni orientali e amori per bellezze sataniche e perverse.

Non certo interessanti le “Revolverate”, del 1909, poesia sociale che declama il patto colonico in forme prosaiche e sa tanto comizio. Per non parlare del “Carme dell’angoscia”, con quei versi cacofonici e sgraziati tipo “ Nec ros, nec pluvia…”. E le prose? C’è un romanzetto, pure a fondo sociale, che s’intitola Gian Pietro da Core, dove forse è possibile salvare una diecina di pagine per una Antologia. Ma, alla fine, è povera cosa, a tesi: storia dell’evoluzione di una idea; e ci voleva tutta l’imprudenza d’un critico a dichiararla «una delle più sode e salde opere di letteratura narrativa apparse dopo i Promessi Sposi». Così come sono dilettantesche e false le Nòttole e i vasi; scenette, poesie, racconti, che il Lucini finge tradotti da papiri greci. Pagine inutilmente malsane, fiori del male: è tuttavia il libro (insieme con la Piccola Chelidonio curata dal Linati) dove meglio appare l’arcidotto Lucini e la sua sensibilità malata di molti estetismi e prodigata con gesti disordinati. Può anche far pensare ad alcuni dialoghi di Luciano per certi toni e immagini, che ne troviamo di delicate. Quella, per esempio, del vasaio tanagrino che leviga un’olla «dalla bocca esigua come quella d’un bimbo che l’apre per meraviglia». O la schiava di Tabistha, la cui tunica «è un velo di fiato come esce d’inverno dalle froge d’un cavallo». O Batillo, che ha «occhi di pervinca, che se li baci, si fanno oscuri e profondi come le viole». Graziose; ma ne troviamo a manate negli alessandrini che egli rifà.

Quando nel 1902 Felice Cameroni (felice anche nell’ingegno) avvicinò il Lucini a Carlo Dossi, si riprometteva cose buone da questa amicizia; il contatto con uno scrittore spontaneo e fresco come il Dossi, avrebbe potuto portare il Lucini a quella purificazione che spesso è toccata ad artisti anche meno dotati di lui. Viceversa, mancò. Lucini non seppe superarsi, non onostante la sua persuasione in contrario: «Il mio maggior titolo è di essermi sorpassato». S’affezionò tuttavia al Dossi e, in suo onore, scrisse L’ora topica, con entusiasmo da iniziato e una stima che pare perfino umiltà verso l’amico più grande.

Alla sua morte, la “Voce” scrisse nel breve necrologio: “Penserà il tempo a scegliere in quelle sue creazioni che sono più una foresta che un giardino; e dove non è facile che l’occhio corra subito su un’aiuola o un fiore”. Anche Carlo Linati lo volle ricordare in “Sulle orme di Renzo”: “Quest’opera ferraginosa mi fa l’effetto d’un gran campo d’erbacce dove ogni tanto c’incontri pure dei bellissimi rosolacci e delle magnifiche cicute”; un po’ poco, per un amico che l’aveva “pianto come un fratello”. Nel 1916 Mario Puccini, scegliendo dai suoi libri di poesia e di prosa, riuscì a mettere insieme un volumetto di centocinquanta pagine, per l’editore Carabba. Lucini già non poteva esser letto che così, in antologia. Ma noi temiamo che quel volumetto oggi debba ridursi d’una buona metà, o forse più.

L’opera di Lucini interessa, più che i poeti, gli studiosi del costume e la storia dei movimenti letterari. Il capitolo sul Lucini fu pubblicato sul Corriere della Sera, e Cesare Angelini fu attaccato per aver cominciato “fin dal titolo a ingiuriare il Lucini”, in realtà Angelini aveva usato le stesse parole o lo stesso epiteto di Lucini. Eccolo. Racconta il Linati in “Sulle orme di Renzo” (pag. 41): “(Lucini) voleva fare del suo casone di Breglia una specie di Accademia letteraria alpestre dove convenissero amici e simpatizzanti dell’opera sua. Qui — mi diceva un giorno prima di morire — c’è libri a iosa, aria fine, stanze allegre, latte prelibato. Farete della poesia, del chiasso, delle passeggiate, e infine penserete anche a stu pover Lucini”.

Carlo Franza *

Sessant’anni fa “Quattro lombardi (e la Brianza)” di Cesare Angelini per Scheiwiller
Quattro lombard I(e la Brianza) di Cesare Angelini per Scheiwiller

* Carlo Franza, nato nel 1949, è uno Storico dell’Arte Moderna e Contemporanea, italiano. Critico d’Arte. È vissuto a Roma dal 1959 al 1980 dove ha studiato e conseguito tre lauree all’Università Statale La Sapienza (Lettere, Filosofia e Sociologia). Si è laureato con Giulio Carlo Argan di cui è stato Allievo e Assistente Ordinario. Dal 1980 è a Milano dove tuttora risiede. Professore Straordinario di Storia dell’Arte Moderna e Contemporanea (Università La Sapienza- Roma), Ordinario di Lingua e Letteratura Italiana. Visiting Professor nell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano e in altre numerose Università estere (Università della Slesia, ecc.). Docente nel Master Universitario dell’ARD&NT Institute (Accademia di Belle Arti di Brera e Politecnico di Milano) in The Other Photography e nel Master Universitario “Management e Valorizzazione dei Beni Culturali” allo IED di Milano. È Consulente Tecnico del Tribunale di Milano per l’Arte Moderna e Contemporanea. È stato indicato dal “Times” fra i dieci Critici d’Arte più importanti d’Europa. Giornalista, Critico d’arte dal 1974 al 2002 a Il Giornale di Indro Montanelli, poi a Libero dal 2002 al 2012 fondato da Vittorio Feltri e diretto da Maurizio Belpietro. Nel 2012 ritorna e riprende sul quotidiano “Il Giornale” la sua rubrica “Scenari dell’arte”. È fondatore e direttore del MIMAC della Fondazione Don Tonino Bello.

Ha al suo attivo decine di libri fondamentali e migliaia di pubblicazioni e cataloghi con presentazioni di mostre. Si è interessato dei più importanti artisti del mondo dei quali ne ha curato prestigiosissime mostre.

Dal 2001 al 2007 è stato Consulente del Ministero per i Beni e le Attività Culturali. Ha vinto per il Giornalismo e la Critica d’Arte, il Premio Città di Alassio nel 1980, il Premio Barocco-Città di Gallipoli nel 1990, il Premio Cortina nel 1994, il Premio Saint Vincent nel 1995, il Premio Bormio nel 1996, il Premio Milano nel 1998, e il Premio delle Arti Premio della Cultura nel 2000 (di cui è presidente di giuria dal 2001) e il Premio Città di Tricase nel 2008. Nel 2013 ha vinto il Premio “Berlino” per il Giornalismo e la Critica d’Arte. Nel 2016 ha vinto a Roma nella Biblioteca Vallicelliana il Premio ARTECOM-onlus per il Giornalismo, la Docenza Universitaria e la Critica d’Arte. Nell’ottobre 2020 gli viene assegnato a Roma nella Biblioteca Vallicelliana il Premio Artecom-onlus come Protogonista della Cultura 2020.