Giancarlo Padovan e la “Storia reazionaria”: «Così il calcio cambia il mondo»

L’ex tecnico della Fiammamonza, monzese d’adozione, ha firmato un libro con Massimo Fini. Una fetta di Brianza fa da spettatrice al racconto di una società mutata per e con il pallone. «Ma l’economia, anno dopo anno, svuota i contenuti identitari»
È il 2006 e la Fiammamonza di Nazy Grilli incontra il Torino di Padovan: finirà 1-0 per le ospiti
È il 2006 e la Fiammamonza di Nazy Grilli incontra il Torino di Padovan: finirà 1-0 per le ospiti

Saki Kumagai, monumento vivente del calcio femminile, ha vinto un Mondiale con il suo Giappone e 4 Champions League con l’Olimpic Lione, di cui è difensore e anima. A inizio maggio, alla Bbc disse: «Senza il calcio, la vita è meno interessante. Troppo seria. Nella vita bisogna ridere». Ma il pallone, forse, se n’è dimenticato. «Il calcio cambia insieme al mondo» e Giancarlo Padovan con Massimo Fini ne raccontano il perché in “Storia reazionaria del calcio – I cambiamenti della società vissuti attraverso il mondo del pallone” (263 pagine, Marsilio editore, 17 euro). Spiegando che «Gli anni tra la fine degli Ottanta e il decennio dei Novanta segnano uno spartiacque definitivo». Tra unificazione della Germania, frammentazione dell’Urss e della Jugoslavia, oppure con i biglietti che «si acquistano in banca. […]. “Mi spiace, tutto il resto è per abbonamento”. Era cominciato il calcio di oggi». Padovan e Fini si alternano capitoli e punti di osservazione, come quello sul calcio femminile. Che l’ex direttore di Tuttosport, per anni prima firma del calcio al Corriere della Sera, ha vissuto anche da allenatore in seconda a Monza. In quel ruolo, per dirne una, che Fini liquida citando Nereo Rocco e chiedendosi «a che serve l’allenatore?». Ma il calcio femminile, a Padovan, è servito anche a creare famiglia. Al di là dei flirt, relazioni lunghe negli anni che riconducono proprio in Fiammamonza, dove ha giocato colei che gli regalerà Beatrice, nata nel novembre del 2018.

Nel libro c’è la Brianza di Omate, c’è teoria del giornalismo: «I cronisti sportivi di una volta erano bravissimi a restituire emozioni anche, e forse proprio, perché alcuni sport, specialmente il ciclismo, non si vedevano o quasi» e «non era più possibile ripetere quel che il lettore, almeno nel settanta per cento dei casi, aveva già visto e metabolizzato. Bisognava andare alle ragioni dell’accaduto, a quale decisione lo avesse determinato […]. Il pezzo della partita sarebbe dovuto diventare un esame approfondito, in questo simile alla critica letteraria e cinematografica». E ricaduta sociale che i rimbalzi del pallone hanno generato: «Non è il calcio moderno ad avere ucciso i giornali […] casomai, è la tv, cioè un medium alternativo usato dissennatamente, ad avere instaurato una dispotica superiorità. Eppure una correlazione esiste. Ed è la velocità del gioco. Quando la televisione si affacciò al calcio, la partita era un confronto tra due squadre lunghe e larghe […]. Oggi il ritmo è tutto. Sia nel gioco sia nel racconto. L’uno rappresenta l’urgenza dell’altro». Un concetto annodato al fatto che «L’economia sta, anno dopo anno, svuotando il calcio di quei contenuti identitari […], il riconoscersi in una squadra, nella sua storia, nella sua tradizione, […] nel suo carattere la cui continuità era assicurata dal passaggio di testimone, di generazione in generazione». Tono dissacrante e ruvido, ignorante del significato di ipocrisia, Fini sentenzia che «il calcio ha avuto anche questa funzione: di sfogo legittimo dell’aggressività. Invece nella testa bacata di chi lo dirige […] lo stadio dovrebbe diventare una sorta di club di gentlemen londinesi» e che «Lo stadio dovrebbe essere vietato alle donne». E così si passa dai verdetti sul ring, con «il più grande di tutti i tempi era il campione dei massimi Rocky Marciano» al pragmatismo che nasce dall’astratto, con il fuorigioco estinto dopo l’introduzione del Var. Per cui, anche nel giudicare i falli da rigore, si prende in prestito da Nietzche il concetto secondo il quale «Non esiste la realtà. Esistono solo le sue rappresentazioni» o che «Non è il dubbio, ma la certezza che uccide». Considerazioni di vita e idoli sportivi, come il velocista Rik Van Steenbergen, ma anche realismo che nasce da Albert Camus: «Mai conoscere i propri miti […]. L’uomo in carne e ossa non corrisponde mai all’immagine fantastica che ti sei fatta di lui ed è quasi sempre deludente».