F1, Morosini in pista: Brambilla, i fratelli monzesi a quattro ruote

E’ stato un bel motociclista, Ernesto Brambilla chiamato Tino, oggi ottantaquattrenne che gira in bici per Monza e dintorni, ricordando con gli amici i tempi fausti. Esordì nelle competizioni nel 1953, dopo aver lasciato il motociclismo dal 1963 si dedicò all’automobilismo. Il fratello Vittorio vinse il titolo italiano di formula 3 nel 1972 e passò alla formula 1 nel 1974 con una March-Ford.
Tino Brambilla durante il collaudo di una Ferrari
Tino Brambilla durante il collaudo di una Ferrari Fabrizio Radaelli

E’ stato un bel motociclista, Ernesto Brambilla chiamato Tino, oggi ottantaquattrenne che gira in bici per Monza e dintorni, ricordando con gli amici i tempi fausti. Primo di quattro figli di Carlo Brambilla, titolare di un’officina di riparazioni auto e moto, Tino esordì nelle competizioni nel 1953 con una Rumi 125cc e una MAS 175cc: vinse quattro gare e si mise in luce Nel 1954 vinse 22 gare con una MV Agusta 125cc conquistando il titolo italiano di terza categoria. Il Tino fu pilota ufficiale MV sino al 1959, ottenendo due titoli italiani Juniores della 250. Nel 1961, con la Bianchi bicilindrica, vinse il campionato italiano seniores nella 500, davanti all’ex campione del mondo, Libero Liberati.

Dopo aver lasciato il motociclismo dal 1963 si dedicò all’automobilismo, dapprima in Formula Junior e dal 1965 in formula 3, finendo secondo in classifica alla guida di una monoposto Wainer. Nel 1966 fu campione italiano di formula 3 con una Brabham Ford. Nel 1968 passò in formula 2, dapprima con una Brabham e poi con una Ferrari, arrivando terzo nel campionato europeo. In quell’anno vinse il GP Roma di formula 2 battendo in volata Andrea de Adamich, per premiarlo Enzo Ferrari gli mise a disposizione la Ferrari di formula 1 per il GP di Monza. Ma quel gran premio, Tino non lo disputò.

Racconta nel suo libro che “si è spesso detto e scritto per anni che non ho esordito a causa di una caduta in moto, avuta alcuni giorni prima delle prove. E’ vero che cadendo dalla moto mi feci male ad un braccio e mi spellai il sedere ma quando provai la Ferrari con cui avrei dovuto correre il Gran Premio d’Italia del 1969, la trovai poco competitiva. Lo dissi all’ingegner Forghieri e presi la decisione di non correre. Avevo capito i limiti della vettura e a Monza, proprio sul circuito di casa, non volevo sfigurare”. In pratica, collaudando all’autodromo la Patton con cui avrebbe dovuto correre, Vittorio Brambilla arrivò e disse al fratello: “Ho come l’impressione che si debba grippare il motore”. Tino, in tuta di cotone azzurra, saltò sulla moto e finì per terra in curva incrinandosi un braccio e spellandosi il sedere. Fu così che dovette rinunciare a correre a Monza perché fu chiaro che col braccio incrinato, il dolore era insopportabile.

Al Bar di stupid a Monza, dove si radunavano i ganassa del motore, hanno sempre raccontato un’altra storia, ripresa e pubblicata anche da qualche giornale. Qualche sera prima delle prove del gran premio di formula 1, discutendo animatamente sulla possibilità di arrivare a Milano, sul viale Fulvio Testi, in meno di dieci minuti, Tino aveva esclamato: “Adesso vi faccio vedere io come si va in moto”. Inforcata la moto, ad un certo punto era finito contro il palo di un semaforo incrinandosi il braccio e spellandosi il sedere. Il venerdì delle prove, Tino si era tolto il gesso, si era fasciato strettamente l’avambraccio e la tuta, comprendo la fascia, non lasciava intravvedere l’inconveniente. Fu lo stesso Enzo Ferrari, che a Monza presenziava sempre e solo alle prove del venerdì e che probabilmente era stato informato da qualcuno sull’accaduto, a chiedergli come mai faticasse tanto a guidare. E Tino aveva dovuto dirgli la verità. Racconto di bar, naturalmente, perché la verità ufficiale Tino l’ha scritta nel suo libro autobiografico.

Tino a Vittorio Brambilla avevano ereditato dal padre un’officina in via della Birona, a Monza. Abitavano con le loro famiglie sopra l’officina. Quando litigavano, tutto il vicinato sentiva urla e parole grosse e al litigio partecipavano anche le rispettive mogli: e qualche volta dalle finestre volava qualche mobile. Vittorio era più robusto di Tino che era però più deciso nell’attaccare lite. Una volta lo vidi arrabbiato sul serio quando alla prima curva del circuito junior, un avversario buttò fuori Vittorio in una gara di formula 3. Tino, che era il meccanico del fratello, scatto di corsa dal box, arrivò alla curva e dette un gran cazzotto sul casco del colpevole. Ci fu trambusto, le mani del Tino roteavano come quelle di Benvenuti, poi tutti insieme tornarono al garage e ci bevvero sopra.

Quello che non era riuscito a Tino Brambilla, riuscì a Vittorio che vinse il titolo italiano di formula 3 nel 1972 e passò alla formula 1 nel 1974 con una March-Ford. Vinse il G.P. d’Austria a Zeltweg l’ anno successivo, diluviava e il direttore di corsa fece terminare la gara. Vittorio arrivò al traguardo e per la gioia lasciò il volante alzando le mani in segno di giubilo: la monoposto partì in acquaplaning e finì contro il muro. La March, in quel 1975, andava come una lippa e vittorio conquistò la pole in Svezia e il quinto posto in Spagna.

Vittorio era molto versatile e io lo vidi disputare, con l’Alfa Romeo 33 TC, il mondiale sport prototipi in coppia con Arturo Merzario. Non avevano avversari, ma a Monza per la 1000 km l’ingegner Carlo Chiti, che comandava la squadra, schierò un terzo pilota, John Watson, che in formula 1 era prima guida della Brabham Alfa Romeo. Era il 24 aprile 1977 e le vicissitudini della corse, ad un certo punto, non collimarono con le attese dell’ingegner Chiti: prima Watson e poi Merzario furono costretti al ritiro. Vittorio Brambilla si trovò in testa alla corsa ma anche lui con qualche problema perché in una “sportellata” contro un avversario aveva riportato qualche danno. Per cui perdeva velocità a causa di problemi aerodinamici dovuti a una sezione di carrozzeria che pendeva.

A inseguire Vittorio c’è Giorgio Francia con una Osella 2000cc motorizzata Bmw. Per colmo di ironia, Francia era il capo collaudatore dell’ Autodelta, sezione sportiva dell’Alfa Romeo. E, secondo colmo d’ironia, a Francia era stato preferito John Watson: ci si può immaginare con che spirito corresse l’italiano. Brambilla comprese di essere in pericolo, giro dopo giro stava perdendo terreno dallo scatenatissimo Francia. Se non si fosse fermato , e se i meccanici non fossero riusciti a far qualcosa sulla macchina, la 1000 km sarebbe stata perduta e con lei probabilmente il mondiale. Così a un certo punto, Brambilla decise di fermarsi. Arrivò sparato al box, saltò giù dalla macchina mentre i meccanici tentavano di riparare il pezzo di carrozzeria rovinato che pendeva dalla scocca. Ma non sapevano decidere sul da farsi mentre l’ingegner Chiti urlava di fare presto.

Strapparlo via si poteva, ma in tal caso sarebbe stata compromessa l’aerodinamica e, forse, anche la corsa. Ma come riattaccare alla meglio il pezzo di carrozzeria nel punto in cui s’era “sdrucito”? Vittorio non ci pensò due volte. Prese un pezzo di fil di ferro, agguantò la sezione che pendeva, fece un foro nella lamiera con un cacciavite e l’attaccò nel punto in cui s’era staccata. Non aveva pinze per stringere i due capi della spranga e allora lo fece con le sue mani, che erano anche più forti di un attrezzo di ferro. Tutta l’operazione durò si e no due minuti. Alla fine, Vittorio rimontò in auto e vinse.

Nel 1979 Imola fu teatro di un gran premio non valido per il mondiale di F.1. E fu l’occasione del ritorno dell’Alfa Romeo in formula 1 con una propria squadra ufficiale diretta dall’ingegner Carlo Chiti, piloti Bruno Giacomelli e Vittorio Brambilla. La mattina del venerdì ero sulla macchina di Chiti (una Turbodelta) guidata da Vittorio Brambilla. Con noi c’era anche Giacomelli. Avevamo evitato l’autostrada già intasata e percorrevamo la via Emilia. Chiti parlava ad alta voce e Vittorio, quando le domande erano rivolte a lui, replicava guardando il suo ingegnere.

“Vittorio – gli diceva Chiti – guarda la strada, non guardare me quando parli. Non sono mica una bella figliola!”. Di fianco alla Via Emilia, ad un certo punto correva un fosso, profondo una trentina di centimetri e largo un metro e mezzo. Era stato scavato per poterci fare, poi, una canale di deflusso d’acqua, ma ancora non era stato cementato. Chiti e Brambilla discutevano su come avrebbero condotto le prove ufficiali. Soprattutto nel caso la pista fosse bagnata, cosa che a Brambilla sarebbe andata particolarmente a genio essendo molto bravo a guidare sotto l’acqua.

Vittorio, guardando l’ingegnere disse:”Si fidi di me”. Non aggiunse altro perché, perdendo la guida, la Turbodelta finì nel fosso: con Chiti, con Giacomelli e con me. Non ci facemmo niente ma per arrivare al circuito dovemmo far ricorso all’aiuto della squadra. Per fortuna l’incidente era capitato di fronte a un bar: al telefono furono sollecitati io meccanici dell’Alfa Romeo che arrivarono in una mezz’ora cantando “Si fidi di me, si fidi di me”.

Lo sanno in pochi, ma Vittorio era un ballerino eccezionale. Di boogie-woogie. Lo vidi ballare una volta a Long Beach, dove eravamo per il G.P. degli Stati Uniti, nella sala principale dell’albergo che ci ospitava e rimasi stupefatto. Vittorio era un cuore d’oro, ma aveva un difettaccio: ti prendeva il muscolo della spalla e te lo stringeva con la sua tenaglia formata da pollice e indice facendoti un mal incredibile. Ma aveva timore dell’ingegner Chiti, ma forse era stima smisurata.

La sera del giovedì prima dell’inizio delle prove, Vittorio Brambilla, Clay Regazzoni, ed io avevamo deciso di andare a cena nel ristorante vicino all’Hilton dove alloggiavamo. Al ristorante trovammo l’ingegner Chiti: facemmo una tavolata unica e la serata si sviluppò in modo molto divertente. Eravamo al caffé quando al nostro tavolo piombarono due ragazzone, molto procaci ed evidentemente alticce per i molti bicchieri. Si fiondarono su Clay: ”Dicci il numero della tua camera che veniamo a trovarti stanotte”. Per le donne Clay era irresistibile, come il miele per gli orsi, ma quella due “valchirie” non gli piacevano. Così prese un foglietto, ci scrisse sopra un numero e lo diede alle ragazze. Il numero non era quello della sua camera ma quello della camera di Chiti.

Tornammo in albergo, Clay ci disse del numero (che era il 457) e poi andammo tutti a letto, dandoci appuntamento per la colazione e ridacchiando per la sorpresa che avrebbe avuto l’ingegnerone dell’Alfa.

La mattina dopo, verso le 8, con Clay e Vittorio eravamo a far colazione. Sbirciavamo l’ingresso di Chiti immaginando la sua rabbia per lo scherzo subito. Due ragazzone americane che ti svegliano di notte per entrare in camera…Come vide Chiti, da lontano, entrare al ristorante Vittorio impallidì e disse: “Adesso chi lo sente? Guardate come arriva!”. Chiti ci vide e venne al tavolo. “Mi ci voleva proprio”, disse soltanto. E sorrideva, soddisfatto.

Nel 1978, mentre viaggiava a 180 all’ora alla partenza del GP d’Italia, Vittorio Brambilla fu coinvolto nell’incidente che costò, poi, la vita a Ronnie Peterson: si beccò in testa un pneumatico e finì all’ospedale di Niguarda. Lo andai a trovare con Tino e Riccardo Patrese. Tino, quando vide il fratello nel letto bianco si mise a piangere. Smise quando Vittorio mormorò: “Dai Tino, non è niente: è solo una gomma che mi è arrivata sul casco”. Il 26 maggio 2001, mentre vangava l’orto, Vittorio Brambilla concluse la sua vita terrena, colpito da infarto.

Ho visto recentemente Tino Brambilla, lo spirito è sempre lo stesso anche se gli anni sono passati. Forse il carattere gli si è addolcito un po’, forse mi sento attratto da lui perché il nome Nestore è anagramma di Ernesto o forse perché rappresenta il motorismo eroico della mia gioventù. O più probabilmente perché, quando lo vedo, mi ricordo del fratello Vittorio e della formula 1 che non c’è più, una formula 1 ricca di amicizie, come quella che legò me, Clay Regazzoni e Vittorio Brambilla. Quella formula 1 che scoprii dal vivo, una domenica del 1966, quando vidi la vittoria a Monza di Ludovico Scarfiotti, una vittoria che ancora attende un altro pilota italiano.