Parla Scola: «Più dei diritti contano le libertà»

Visite pastorali in Brianza, sfide dei cattolici in politica, Papa Francesco e futuro dell’Europa, intervista all’arcivescovo di Milano cardinale Angelo Scola
Monza Il cardinale Angelo Scola durante una funzione nel duomo
Monza Il cardinale Angelo Scola durante una funzione nel duomo Fabrizio Radaelli

«C’è un popolo vivo, un nucleo». Qualcosa di duro da estinguersi, sembra dire Angelo Scola: e parla della Brianza. Il cardinale in queste settimane la sta attraversando in una capillare serie di visite pastorali che hanno toccato e stanno toccando i nostri comuni. L’arcivescovo di Milano osserva stupito una conferma: quella di una «partecipazione attiva, non formale» della gente a questi incontri, segno tangibile non di un clericalismo ma di una «domanda di senso» che tiene, e sorregge uomini e donne. Scola incontra il Cittadino per una conversazione che parte dalla Brianza e arriva all’Europa, tocca la crisi e la fede, e assume particolare attualità alla luce della fresca cronaca parlamentare e del voto sulle cosiddette “unioni civili”.

Eminenza, a Carate lei ha detto che per il cristiano «la missione non è strategia»: cosa significa?

Che la missione è una testimonianza. Lo vediamo leggendo il Vangelo: per compiere la missione affidatagli dal Padre Gesù non elabora strategie, ma propone con autorevolezza una vita, un tipo di relazione pienamente umana la cui sorgente è nel Suo rapporto con il Padre e che i Suoi saranno poi chiamati a comunicare in tutto il mondo. Egli coinvolge tutti, a partire dagli apostoli, in una crescente, concretissima familiarità con la Sua persona. Non c’è nulla di strategico, né per i singoli né per le comunità cristiane, anche quando sorgono le prime esigenze “istituzionali”, come è descritto dal celebre passaggio di Atti 2,42-48 che ci parla della prima comunità di Gerusalemme. Il radunarsi per vivere la cena eucaristica e per ascoltare l’insegnamento degli apostoli, come la tensione a vivere la comunione sono tutti elementi concreti ben radicati nel quotidiano per comunicare, in maniera libera e spontanea, un tipo di vita. Perché ognuno di noi comunica quello che è. La testimonianza però non si lascia ridurre al buon esempio: è un modo per conoscere adeguatamente la realtà, cioè di comunicare la verità. Ecco, questa è davvero la ragion d’essere del cristianesimo, è la modalità con cui il cristianesimo cerca di parlare a tutti gli uomini. Il cristianesimo, se è fedele alla sua natura, non ha mai mire egemoniche. Esse invece si sviluppano facilmente sul terreno dell’ideologia o dell’utopia. In certi momenti anche la Chiesa ne è stata vittima, ma nella sua sostanza il cristianesimo incide sulla storia quando resta in questa posizione testimoniale. L’esito dell’opera che il Padre affida ai suoi figli, a partire dalla Croce di Gesù, non è mai nelle loro mani.

Questa definizione di missione non porta a una specie di disimpegno, a una concezione privata delle fede?

No di certo, perché il cristianesimo – come affermò una volta il cardinal Ratzinger – per il fatto stesso che dice all’uomo chi egli è e come deve vivere genera cultura. E Giovanni Paolo II osservò che «una fede che non diventa cultura non è matura e soprattutto non si comunica». La testimonianza dice la modalità con cui questa fede diventa cultura: non per conquistare un potere, ma per comunicare un’attrattiva incontrata come senso della vita e che non si riesce a tenere per sé. Tutti parlano di princìpi, di valori, che però spesso restano sulla carta. Io preferisco dire che la fede ha delle implicazioni antropologiche, sociali, ecologiche, che in una società plurale entrano in relazione con altre visioni del mondo. E i cristiani sono chiamati a portare la loro testimonianza pubblica anche utilizzando le forme giuridiche, economiche, culturali e sociali a disposizione, con il coraggio del confronto attraverso una narrazione continua con gli altri soggetti che abitano questa società, in vista di un riconoscimento reciproco. Se io sono convinto che una società è sana se è fondata su una famiglia come unione stabile e aperta alla vita tra un uomo e una donna, ho il dovere di proporre questa visione, tanto più in una società plurale. Se non la propongo tolgo qualcosa a questa società. Io non amo il linguaggio della militanza: lo considero totalmente superato nella nostra società. Da questo punto di vista mi pare che la posizione di Papa Francesco risulti molto efficace.

Lei è impegnato da settimane in una serie di visite pastorali che più volte hanno toccato le nostre città. Che cosa ha visto in Brianza?

Un nucleo di popolo ancora molto solido, che vive un sensus fidei elementare, originario e potente, dal quale imparo tanto. Ma, come diceva il beato Paolo VI, questa fede uscendo dalla chiesa ed entrando nel quotidiano non sempre riesce ad assumere la “mentalità e i sentimenti” di Cristo. Recuperando una sua celebre immagine, dobbiamo colmare il fossato tra la fede e la vita, per passare dalla fede per convenzione a quella per convinzione, così da poter dire con semplicità a chiunque: «Vieni e vedi», come disse Gesù a Giovanni e Andrea. Oggi siamo sul bagnasciuga di questo discrimine.

Otto dei nostri comuni, così come quello del cuore della Diocesi che lei dirige, vanno al voto tra meno di un mese. Cosa si augura, e cosa chiede ai cristiani?

Come abbiamo voluto dire a nome di tutto il Consiglio Episcopale Milanese nel documento pubblicato in occasione delle prossime elezioni, questo tempo reca con sé un pressante invito per i cristiani a giocare il proprio impegno fin dentro la politica partitica, anche e soprattutto in occasione di elezioni amministrative. Mai è stata così attuale la celebre frase di papa Montini che elevava la politica a forma più alta di carità: c’è bisogno di quella che chiamo “vita buona”. I “dialoghi di vita buona” in atto nella Diocesi – che hanno appena avuto una importante tappa proprio a Monza – ci testimoniano un grande interesse da parte di tutti: non c’è altra strada se non quella di un’amicizia civica in cui, come diceva Edith Stein, amore e verità siano inseparabili. L’ulteriore appello recentemente sottoscritto in diocesi praticamente da tutte le realtà ecclesiali e dai movimenti è un avvenimento storico che, in questa prospettiva, io giudico molto positivo.

Lei ha di recente prefato un’edizione della Amoris Laetitia, l’esortazione post-sinodale di Papa Francesco: qual è il suo “cuore”, e perché è stata così dibattuta a suo avviso anche sul fronte laico?

Lo scopo centrale del grande lavoro che ha preso due anni è promuovere la famiglia come “soggetto di evangelizzazione”, cioè dell’annuncio e della testimonianza di Gesù Cristo. I capitoli si snodano in funzione di questa vocazione missionaria insostituibile: tutti i gruppi familiari, che svolgono un’azione eccellente, sono chiamati a spostarsi dai locali della parrocchia e dell’associazionismo alla “chiesa domestica”, cioè all’affronto del quotidiano. Gesù si è incarnato per essere una compagnia che ci guida al destino: affetti, lavoro, riposo, dolore, male morale, morte, educazione, giustizia sociale sono contenuti della vita di ciascuno, e la missione è vivere in Cristo questi dati. A ogni persona, a ogni famiglia – da sola e con altri nuclei – spetta il compito di sostenersi nel valutare e giudicare tutte le circostanze e i rapporti della vita – facili o difficili – con la mentalità e i sentimenti di Cristo. Questo è anche il metodo più felice per valorizzare i fedeli laici come soggetti, e non come “clienti” della Chiesa. Proprio in funzione di questo il Papa dedica due capitoli all’amore nuziale e all’educazione dei figli dopo aver ancorato nella tradizione della Chiesa la visione cristiana del matrimonio, e dopo aver descritto le sfide attuali della famiglia di oggi. Entro questa prospettiva pone la questione di un atteggiamento positivo di accompagnamento, di discernimento e di integrazione anche di tutte le famiglie ferite che si trovano in situazione problematica. Nel testo non mi pare ci sia spazio per altro; diverso discorso è su come i mass media l’hanno ripreso…

Personalmente, come questo papato ha cambiato la sua missione?

Devo riconoscere, molto umilmente, di essere stato provocato dallo stile con cui questo Papa si muove: è un grande testimone della fede, coraggioso, radicale, autorevole come tutti notano. Per come sono capace – San Paolo diceva: “Per grazia di Dio sono quello che sono” – cerco, senza diventare ridicolo, di imitarlo.

Da allievo e amico di don Giussani, cosa vive oggi di più prezioso del suo contributo di vita, e cosa augura al movimento di CL?

Don Giussani rimise in moto il mio desiderio di giovane stanco e ai margini della vita ecclesiale con due fattori: primo, Cristo c’entra con tutto; secondo, per incontrarLo e darGli del Tu bisogna passare attraverso un’appartenenza forte a una comunità. Assieme a questi fattori ho scoperto l’insostituibile valore dell’incarnazione: ci si domandava cosa c’entrasse Cristo con noi, coi compagni e con i contenuti dello studio. Un potente invito a rischiare la propria libertà, fuori dal dualismo fede/vita di cui si diceva prima. Io, pure educato dalla mia famiglia, dalla parrocchia e fino ai 16 anni nell’Azione Cattolica, non capivo più cosa c’entrasse Cristo con Callimaco, con la letteratura russa, con una natura morta di Cézanne, con la storia del movimento operaio di cui si parlava al liceo. Grazie a Giussani e agli amici con cui ho condiviso questa esperienza ho ritrovato il nesso tra l’avvenimento di Cristo e la vita, e l’urgenza di condividere il dono totale di sé, che è la legge suprema insegnata da Gesù. Il mio auspicio è che CL incarni sempre più in questo cambiamento d’epoca il carisma del Servo di Dio Monsignor Giussani che l’ha suscitata. Inoltre mi auguro che tutte le realtà ecclesiali della diocesi, dopo la stagione dialettica, sappiano aprirsi a una collaborazione capace di una proposta cristiana chiara in tutti gli ambienti dell’umana esistenza.

Molto spesso lei cita la dimensione europea come essenziale, eppure parla di un’Europa affaticata. Dov’è l’origine di questa fatica, visto che oggi l’Europa almeno istituzionalmente è percepita come una gabbia?

Il problema è il futuro. E da questo punto di vista sono molto amareggiato e preoccupato: mi pare che la questione economico-finanziaria la faccia da padrone, e questo inevitabilmente porta con sé il rischio di pesanti conflitti tra economie più e meno avanzate, anche all’interno dell’Unione europea. Dicendo questo non voglio “idealizzare” la questione: dopo la seconda guerra mondiale i Padri dell’Unione europea sono partiti proprio dalla concretezza, dal carbone e dall’acciaio. Il cristianesimo è in se stesso una grande scuola di realismo: occorre partire dai bisogni concreti, come faceva Gesù. Egli si chinò sull’esigenza della Samaritana di non andare ogni giorno al pozzo ad attingere acqua, ma da lì la aprì al desiderio di spegnere nella sua vita una sete ben più potente.

Eminenza, cosa c’entra con l’Europa?

L’Europa deve trovare la strada per individuare i punti critici di bisogno dei suoi cittadini, assumendo con coraggio una responsabilità verso tutti, soprattutto verso chi, essendo più debole, ne è maggiormente gravato. Il nuovo cittadino europeo sarà inesorabilmente l’esito di un meticciamento di culture, ma proprio per questo deve ritrovare le proprie radici. Rémi Brague insiste sulla tesi della “secondarietà” dell’Europa: Roma non è nata come Alessandria, Gerusalemme o Atene, cioè da una propria originale radice. Roma si è lasciata alimentare dalle loro radici, vivificandole col diritto e anche con la linfa del cristianesimo, in una nuova prospettiva. La tesi di Brague è suggestiva, ma non è declinata: occorre farlo partendo dal basso, dai problemi reali.

Per esempio?

Il gelo demografico, così raramente affrontato. Speriamo che in Italia ci si decida davvero a varare una politica seria per la famiglia, per i figli. per la libertà di educazione, ecc. Che si punti insomma a una democrazia dalle libertà realizzate e non solo dei diritti conclamati: perché quando questi ultimi finiscono su una carta perché ogni gruppuscolo pretende di essere garantito dalla legge, la vita sociale e il gusto di appartenenza a un popolo finiscono con lo spegnersi. L’Europa deve risvegliarsi dal basso: occorrono uomini e donne capaci di cogliere l’ideale nel reale, perché senza una radice di senso il concreto diventa opaco.

A proposito di concretezza. Il nostro giornale ha 116 anni e sorge dall’esperienza delle parrocchie. Oggi, in una personalità laica, conserva un richiamo attuale alla tradizione: cosa suggerisce a chi fa questo lavoro?

Credo che il primo compito rimanga quello di raccontare la realtà così com’è, senza falsi oggettivismi. Cercando però il lato buono, rispettando la dignità delle persone, ma soprattutto evitando di trattare il verosimile come se fosse il vero “tout-court”. Il verosimile comporta sempre un retropensiero irrorato di sospetto: e questo giornalismo tradisce la realtà molto più di quanto lo faccia l’errore.