Muggiò, la storia di Rosario: «La mia vita oltre il carcere, in pasticceria»

Rosario Gioia, detenuto a Monza, lavora in cucina nella Pasticceria Mariani di Muggiò: «Ci avevano chiamati in carcere per un catering -spiega Roberta Mariani – Mi sono ritrovata ad allestirlo con Rosario: si è creata la giusta sintonia, credevo che fosse un cuoco che lavorava nella cucina del carcere».
Rosario Gioia, quarto da sinistra, con lo staff della pasticceria
Rosario Gioia, quarto da sinistra, con lo staff della pasticceria Luca Scarpetta

A volte basta un incontro. Ed ecco che una quotidianità all’apparenza immutabile, può anche cedere al miracolo di un nuovo inizio. È incominciata alla Pasticceria Mariani di Muggiò la seconda vita di Rosario Gioia, 46 anni, catanese, detenuto del carcere di Monza, che da alcuni mesi lavora, tra paste e dolci, nella cucina della storica caffetteria di piazza Matteotti. Proprio a Muggiò Rosario è capitato quasi per caso, per uno di quegli incroci che il destino inizia a tessere durante l’infanzia e che poi sembrano perdersi, fino a quando la vita non decide sorprendentemente di riannodare quei fili lasciati in sospeso così a lungo, regalando una seconda, insperata, possibilità, anche a coloro che magari credono di non meritarla.

Così, dopo più di vent’anni trascorsi in bilico, tra Roma e la Sicilia, fino a Milano, l’epilogo era stato amaro: un mandato di cattura, preludio al suo arresto, e quindi la sentenza: quindici anni. È il 2011 e da quel momento, alle spalle di Rosario, scatta la serratura metallica di una cella del carcere di Monza.

Eppure quando Roberta Mariani lo incontra, Rosario non è già più lo stesso uomo: «In occasione di un evento, ci avevano chiamati in carcere per un catering, grazie alla muggiorese Antonetta Carrabs che presta servizio come volontaria – ha spiegato Roberta Mariani – Così mi sono ritrovata ad allestirlo insieme a Rosario: si è creata subito la giusta sintonia, tanto che credevo che fosse un cuoco che lavorava nella cucina del carcere».

Già, perché negli anni precedenti, Rosario aveva iniziato un percorso riabilitativo che gli aveva fatto percepire se stesso e la vita sotto un’altra prospettiva: «Ero entrato a far parte di “Oltreconfine”, la redazione del giornale del carcere – ha raccontato Rosario – Ho avuto la possibilità di lavorare come volontario nel nostro reparto psichiatrico, dove ho ricevuto tantissimo perché quei ragazzi mi hanno fatto rivivere la storia della mia vita fino a quel momento, e poi mi sono anche fatto coinvolgere in un evento per Matera, che mi ha dato l’opportunità di lavorare in cucina e poi di partecipare al catering in cui ho conosciuto Roberta e suo padre».

Che nei mesi successivi è andato spesso a trovare Rosario in carcere, fino a quando la direzione ha ritenuto che nel suo percorso, fosse arrivato il momento per un altro, significativo, passo: «Le circostanze – ha continuato Roberta – hanno voluto che proprio in quel periodo stessimo cercando un cuoco…». Dopo l’iter burocratico, una mattina di fine ottobre, Rosario si è presentato in pasticceria, in bicicletta: «È strano uscire, dopo quattro anni. E qui avete le porte in legno».

Non più il rumore logorante di serratura metallica, solo il profumo dei dolci e il calore di quella che per Rosario «è una seconda famiglia, che mi ricorda ciò che avevo iniziato da ragazzo quando, a 14 anni, avevo lasciato la scuola per fare il pasticcere. Questo ha risvegliato una parte di me, che avevo dimenticato e mi ha fatto ritrovare l’amore per il lavoro».

Una seconda famiglia che gli ha permesso di riabbracciare la sua, la moglie e i figli, seppur per poche ore, con un pranzo natalizio durante l’orario di lavoro, prima di rientrare in carcere: «Pensavo di averli protetti tenendoli all’oscuro di tutto, invece ho tolto loro la presenza di un padre». Ma la seconda vita di Rosario non sarebbe iniziata, senza tre donne: il direttore Maria Pitaniello «attraverso il cui sguardo, vedo la mia strada», il procuratore aggiunto Manuela Massenz e l’educatore Marika Colella: «La loro attenzione ha fatto sì che emergesse la parte migliore di me». Proprio come un “figliol prodigo”, perché «nonostante i nostri errori – ha concluso Rosario – noi restiamo figli di questa società».