Monza: una pietra d’inciampo in memoria dei deportati Alessandro Colombo e Ilda Zamorani

Il Comune di Monza aderisce al Comitato per le pietre d’inciampo in memoria dei deportati nei lager: le prime saranno dedicate ad Alessandro Colombo e Ilda Zamorani
Monza: Alessandro Colombo e Ilda Zamorani con i nipoti
Monza: Alessandro Colombo e Ilda Zamorani con i nipoti

Saranno dedicate al martirio di una coppia di monzesi le prime pietre d’inciampo che verranno posate nella nostra città: i due sampietrini ricoperti in ottone, che saranno collocati in occasione della Giornata della memoria 2020, ricorderanno Alessandro Colombo e la moglie Ilda Zamorani deportati nel lager di Auschwitz nel 1943 e uccisi subito dopo il loro arrivo. I coniugi avevano, rispettivamente, 68 e 63 anni, e abitavano in via Como, l’attuale via Prina, all’altezza della chiesa di San Biagio: proprio davanti alla loro casa sarà incastonato nel selciato quello che in molti Paesi europei è diventato il simbolo dell’orrore nazifascita.

Le pietre d’inciampo, ideate nel 1995 dall’artista tedesco Günter Denming per incidere nel tessuto urbanistico una traccia dello sterminio, saranno collocate dal Comune che ha accolto la proposta dell’architetto Alberto Colombo, nipote di Alessandro e Ilda: di recente, infatti, la giunta Allevi ha aderito al comitato brianzolo costituito dall’associazione Senza confini di Seveso, dall’Anpi, dall’Associazione nazionale ex deportati, dai comuni di Lissone, Cesano Maderno e Seregno. In queste tre città il 26 gennaio sono stati posati i primi sampietrini della Provincia di Monza che a Lissone ricordano il partigiano Mario Bettega, a Cesano l’internato per motivi politici Arturo Martinelli e a Seregno la famiglia ebrea Gani.

***

Di seguito il ricordo di Alberto Colombo raccolto per il Cittadino nel 2013 da Letizia Rossi:

Scendono dal convoglio. Nemmeno il tempo di capire dove li abbia portati questo treno, che è partito da Milano cinque giorni fa. È l’11 dicembre del 1943. Alessandro Colombo ha sessantotto anni, la moglie, Ilda Zamorani, cinque meno di lui. Sono stimati cittadini italiani, monzesi, ma importa solo che siano ebrei. Il treno che è partito da Milano, e in cinque giorni ha macinato migliaia di chilometri di Europa, li ha portati ad Auschwitz. Scendono dal convoglio. Poi c’è solo, c’è subito, la camera a gas.

«Avevo solo tre anni». Il monzese Alberto Colombo comincia così, insieme alla moglie Annalisa Bemporad, il racconto della fine del nonno e della nonna. Per ricostruire la vita che c’è, che c’era, dietro il ritratto in bianco e nero delle fotografie conservate con cura, ha frugato nei ricordi scritti, spulciando e mettendo insieme informazioni. Anche minime, perché anche di quelle fatta la memoria.

«Della nonna, che era nata a Ferrara nel 1880, so che era una brava pianista e poi tempo fa mi sono imbattuto quasi per caso nel suo nome in alcuni numeri di un giornale per ragazzi. Il nonno invece, nato a Pitigliano nel 1895, è citato più volte nella rivista Il vessillo israelitico, che raccoglie notizie sulla comunità ebraica toscana. La prima, nel novembre del 1895: dice del suo diploma all’Istituto tecnico di Savona, con «ispendida votazione». Dice anche che l’istituzione benefica che ha finanziato i suoi studi è fiera di questo alunno. Ed eccolo di nuovo (e questa volta a Monza, dove è arrivato vincendo un concorso), nel 1902: sono gli auguri per le nozze con Ilda, il 5 novembre. «A una carissima coppia degna dei migliori destini».

A Monza, Alessandro Colombo lavora per la Congregazione di Carità che amministra l’ospedale cittadino. Insegna ragioneria; i due figli, Giorgio e Piero, sono iscritti agli albi professionali (rispettivamente) degli avvocati e degli ingegneri. Nel 1938 la famiglia, conosciutissima e stimata, in città, assiste alla nascita della prima nipotina, Sandra. «Nel bel mezzo di questa bella storia, nell’autunno di quell’anno, arriva la legnata delle leggi razziali», riprende Alberto Colombo, «e le conseguenze sono terribili. L’espulsione dei figli da albi e associazioni, Alessandro Colombo smette di insegnare, un drastico calo del tenore di vita, la ferita alla dignità». Ma anche lo stupore, l’incredulità. Quella che spinge il nonno a inoltrare la domanda di discriminazione dalle leggi, al ministero degli Interni. «L’hanno scritta in tanti, all’epoca – spiega Annalisa Bemporad – molti ebrei per esempio erano militari insigniti di benemerenze patriottiche».

Alessandro Colombo si appella all’impegno in ambito civile e professionale e chiede una cosa soltanto: di poter esser considerato quello che è e si sente, italiano. «Non ho patrimonio da porre in salvo – la lettera stata pubblicata da Pietro Arienti in Dalla Brianza ai Lager del Terzo Reich – e non attendo dal provvedimento che invoco vantaggio materiale di sorta, unico movente è quello di essere equiparato agli altri cittadini italiani perché mi sento profondamente, sinceramente italiano. La residenza in Italia dei miei avi si perde nella notte dei tempi». Non serve a nulla. È sempre in questi anni che Alessandro rileva a Carnate un piccolo stabilimento di interruttori, isolatori in ceramica, in via Fornace. Alessandro fa il pendolare tra Monza e Carnate (dove è stata dedicata a lui e alla moglie una via, proprio dove un tempo sorgeva la fabbrica). Il suo braccio destro è la futura moglie del figlio Piero, la zia Franca (impiegata e figlia di un ferroviere ex alunno di Alessandro) che salverà le loro cose dopo l’arresto e visiterà i Colombo durante la prigionia a San Vittore.

Ma prima c’è ancora una fotografia. Su una panchina, Alessandro Colombo, a braccia e gambe incrociate, magro, in un completo gessato; accanto a lui la moglie indica l’obbiettivo al piccolo Alberto (che nato nel 1940). Sandra sorride, vicino al nonno, con un nastro nei capelli. Lo scatto precede di poco la tragedia. Il pericolo arriva con l’8 settembre del 1943. La famiglia si divide. Giorgio, la moglie e i figli (la famiglia di Alberto) si trasferiscono nelle Marche, in un luogo sicuro. Piero e gli anziani genitori cercano riparo nell’affollata Milano: a Monza sono in troppi a conoscerli. E la taglia, per un ebreo, è di cinquemila lire. «È l’inizio di novembre, quando lo zio Piero parte in bicicletta da Milano per andare a trovare il fratello. È allora che il nonno commette un’imprudenza gravissima: torna a Monza, per prendere le fotografie mie e di mia sorella. La nostalgia dei nipoti».

Non fa in tempo a entrare nella vecchia casa. Una soffiata, e sono già lì per arrestarlo. La moglie si costituisce poco dopo, per non lasciarlo solo. Sono condotti a Milano. Il 6 dicembre partono dal famigerato binario 21. L’11 sono ad Auschwitz. Poi c’è solo, c’è subito, la camera a gas. Qui finisce la storia di Ilda e Alessandro. Ma non quella di una famiglia. Cala il silenzio sui nonni, per i grandi il ricordo è troppo doloroso. «Tornati a Monza, i Colombo hanno dovuto mettere da parte quello che era successo, per poter continuare a vivere. Anche perché la vita sociale era stata stravolta», spiega Annalisa Bemporad.

«Solo alla morte di mio padre e suo fratello – continua il marito – abbiamo trovato una scatoletta da niente, con alcune cose d’oro della nonna. Non erano più riusciti ad aprirla». E qui il suo racconto incrocia quello che la sorella maggiore Sandra ha affidato qualche anno fa all’opera Giocavamo alla guerra, pubblicata da Novaluna. «Mi mancavano i nonni e non sapevo più niente di loro, ma sapevo anche che non dovevo fare domande». Solo più tardi, molto più tardi, avrebbe saputo.

Rimarrà sempre un senso di tragedia inspiegabile, di sofferenza impossibile da avvicinare; insieme a riserve di affetto, appoggio e sicurezza che non ci sono più state. Finisce la storia di Ilda e Alessandro, ma non quella di una famiglia. «Ora c’è un nuovo Alessandro Colombo», dice Alberto. «In trasferta per lavoro, mio figlio si è innamorato di una ragazza polacca: che tre anni fa gli ha dato un figlio». La voce di Alberto si incrina: «E per curiosissimi casi della vita, Alessandro è nato a venti chilometri». Non riesce a finire la frase; lo fa, con dolcezza, la moglie. «Da Auschwitz».