Monza: la storia di Maria Luisa Melzi, che dal mare fa nascere anche la speranza

VIDEO L’intervista - La dottoressa Maria Luisa Melzi lavora al San Gerardo di Monza ma da due anni dedica le ferie alla Fondazione Rava: così su una nave militare ha seguito il parto di una donna somala, salvata da un barcone, che ha dato alla luce una bambina che si chiamerà proprio Maria Luisa. Questa la sua storia.
Monza, la dottoressa Maria Luisa Melzi
Monza, la dottoressa Maria Luisa Melzi Redazione online

Lo stesso giorno in cui gli uomini della Marina militare hanno salvato in mare la sua mamma, una somala di 23 anni, al largo delle coste libiche sono morti 34 migranti. Era mercoledì 24 maggio. Venerdì alle 7.30 sulla nave Libra, la vita si è presa la sua piccola rivincita ed è nata lei, Maria Luisa, tre chili di speranza.


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Un nome inusuale per una bambina somala, dovuto al fatto che nell’équipe medica che l’ha fatta nascere, di cui facevano parte anche l’ostetrica Francesca Cirillo di Firenze, l’infermiera Fabiana Landini di Prato, l’infermiere maresciallo della Marina Angelo Vozza, c’era Maria Luisa Melzi, 55 anni, che solitamente lavora a Monza, al San Gerardo, per la Fondazione della mamma e del bambino, come responsabile del reparto di pediatria e del pronto soccorso pediatrico, ma che dedica da due anni le sue ferie al volontariato per la Fondazione Rava, occupandosi dei migranti salvati nei viaggi sulle carrette del mare tra la Libia e l’Italia.

«Le persone tratte in salvo da un barcone erano 470 – spiega la dottoressa Melzi – Con loro c’era anche Hafsa, al nono mese di gravidanza. Ci attendeva almeno un altro giorno di viaggio per raggiungere Reggio Calabria, ma le sue condizioni erano stabili e anche per questo abbiamo rinunciato a un suo eventuale trasporto in elicottero sulla terra ferma. La sera del 25 ha avuto qualche doloretto ma era tutto sotto controllo. Così abbiamo deciso di rinunciare definitivamente al suo trasporto: due ore dopo la bambina è nata. Un travaglio velocissimo durante il quale la mamma non ha detto una parola, nessun lamento».

Prendere decisioni sulla nave, senza avere una struttura alle spalle come l’ospedale, non è facile: «È una palestra di responsabilità», dice Maria Luisa Melzi.

Le competenze di tutti, comunque, hanno indotto a prendere la strada giusta.. La comunicazione con Hafsa era tenuta tramite una donna eritrea che sapeva un po’ di inglese, sorella di una delle tre persone fratturate salvate dal barcone. Spesso, infatti, i migranti che arrivano portando con sè solo i vestiti che hanno addosso, mai cambiati per mesi interi, riportano i segni delle botte subite durante il lungo viaggio. la neomamma ha avuto qualche problema: inizialmente non riusciva a espellere la placenta. Poi tutto si è risolto anche se la donna è stata trasportata all’ospedale di Taormina per tenerla sotto osservazione.

«L’abbiamo molto coccolata – ricorda il medico monzese – Quando le abbiamo domandato come voleva chiamare la bambina ha chiesto il mio nome. Ma invece di Maria Luisa, forse perchè non riusciva a pronunciarlo bene, ripeteva Monna Lisa. Ora mi spiacerebbe perdere i contatti con lei, per questo ho lasciato ai servizi sociali il mio cellulare. La sento parte della mia famiglia, mi sento nonna».

Sui soccorsi ai migranti dice semplicemente che sono un atto di giustizia perchè quella è una tratta di essere umani: «Ogni volta che vedo uno di loro penso che potrebbe essere mio marito, mia figlia, io stessa». Della sua esperienza in mare non vuole dimenticare la Marina militare: «I l loro ruolo sarebbe un altro, sono lì per sostenere i pescherecci italiani, per controllare le piattaforme Eni, ma quando vengono mandati in queste missioni di salvataggio non si tirano indietro. Se si tratta di bambini poi, diventano tutti papà. Sono stata colpita dal clima che c’è tra loro. Sono una grande famiglia, tutti uniti (il cuoco, il marinaio, il nocchiere, il comandante) per un unico fine, perchè nessuno vada perso in mare.

Quando salgono sulle navi della Marina, sicuri di essere su imbarcazioni stabili e non sulle orribili carrette del mare sulle quali li fanno viaggiare gli scafisti, scaricano tutta la stanchezza. Stravolti da mesi passati in condizioni disumane, con gli stessi vestiti addosso, magari dopo aver subito botte e angherie che li hanno azzoppati e feriti nel corpo e nell’anima, si sdraiano e dormono. Troppa la tensione, troppe le energie buttate in un viaggio della speranza nel quale i soccorsi italiani rappresentano un primo approdo. Non la garanzia di un futuro, ma almeno la possibilità di essere trattati come uomini e donne e non come carne da macello.

Anche il trasbordo dai barconi alla nave ha i suoi pericoli. Le operazioni devono essere condotte con calma, evitando che i profughi, che spesso non sanno nuotare, si gettino in mare pensando di raggiungere prima i soccorsi o si muovano in gruppo sulle loro bagnarole facendole affondare per lo spostamento di peso su un solo lato. Qualcuno di loro è morto anche per questo.

Invece devono aspettare che ognuno venga dotato di un salvagente e passare in ordine da un’imbarcazione all’altra. Il primo contatto con il personale della nave è con i militari del San Marco che li controllano per scongiurare il pericolo di armi o oggetti pericolosi in loro possesso. Poi è la volta del team sanitario che, bardato di tutto punto per evitare eventuali contagi, visita le persone per verificare le loro condizioni di salute, se hanno contratto malattie: la scabbia, ad esempio, dovuta alle condizioni di viaggio e a quelle di vita in Libia o negli altri Paesi attraversati, porta con sè segni visibili. Molti hanno cicatrici, ferite, alcuni fratture.

«All’inizio sono reticenti –spiega Maria Luisa Melzi – Ci mettono un po’ ad ambientarsi, è comprensibile. Anche perché non sono molti quelli che sanno l’inglese e che sono in grado di comunicare. I bambini, invece, sono fantastici, sono un canto alla vita, subito sorridono, non hanno memoria delle cose brutte».

Col Borsini, nella prima missione alla quale la dottoressa monzese ha partecipato l’anno scorso ce n’erano 100, 80 dei quali lattanti. Ma lì sono state salvate più di 1100 persone, comprese venti donne gravide.

«Stavolta erano una decina. Due minori, adolescenti eritrei, non erano accompagnati. Li abbiamo affidati ai volontari».

I migranti raccolti la settimana scorsa dalla nave Libra erano delle nazionalità più disparate: venivano da Pakistan, Bangladesh, Eritrea, Somalia, Sud Sudan, Siria (spesso colti, laureati), Nigeria, Egitto, Algeria, dalla stessa Libia. Non hanno documenti, al massimo foto e numeri di telefono di conoscenti o parenti da raggiungere. Sulla nave trovano posto nell’hangar, al coperto, dove vengono sistemati donne, bambini e malati, o anche sul ponte volo dove vanno gli uomini. Addosso hanno le metalline, piccoli mantelli per difenderli dal freddo che li fanno brillare alla luce della luna. Il medico volontario è anche ufficiale medico della nave, deve occuparsi di tutto, al di là della sua specializzazione.

«È un frullatore – spiega la dottoressa Melzi – Un pronto soccorso continuo che affrontiamo con pochissimi farmaci e nessuno strumento diagnostico».

Non ci sono esami o lastre da fare, si può solo dedurre una diagnosi dai sintomi. Il personale sanitario partecipa alla vita della nave: tiene lezioni all’equipaggio (ad esempio sui vaccini) partecipa alle esercitazioni.

La collaborazione della Fondazione Rava con la Marina è nata con il trasporto degli aiuti per Haiti, uno dei Paesi aiutati dalla Fondazione. Così, quando sulle navi scarseggiava il personale medico per far fronte all’emergenza migranti sono arrivati i volontari (medici e infermieri) che hanno dato la loro disponibilità per questo servizio. Alcuni sono gli stessi che dal 2013 fanno parte dei “pediatri del mezzanino”, che si occupano insieme a Save The Children dei bambini che transitano dalla stazione centrale di Milano nella base in via Sammartini. Anche da lì passa il viaggio dei migranti.

La Fondazione Francesca Rava dal 2013 è a fianco della Marina militare nel soccorso sanitario ai migranti. Oltre 180 medici, infermieri d’urgenza, ginecologi e ostetriche, pediatri volontari hanno assistito 110mila persone. Per Info e donazioni:Fondazione Francesca Rava – N.P.H. Italia Onlus, 0254122917, www.nph-italia.org, c/c bancario IT 39 G 03062 34210 000000760000 – causale: emergenza Lampedusa.