Il Covid un anno dopo, Carlo Gaeta: «Di gesti di umanità, in quelle settimane, ne ricordo tanti»

È passato un anno da quando il giornalista Carlo Gaeta ha raccontato da un letto di ospedale la prima ondata dell’epidemia Covid in Lombardia, in Italia, nel mondo. Un anno dopo racconta: «Di gesti di umanità, in quelle settimane, ne ricordo tanti»
Carlo Gaeta
Carlo Gaeta Fabrizio Radaelli

«Sono tornato a casa contento, perché quello che ho ricevuto in quei giorni è stato il regalo più bello di tutta la mia vita». Parola del giornalista Carlo Gaeta, 63 anni da compiere in questo 2021, a pochi giorni da quel 20 aprile che, l’anno scorso, con le dimissioni dall’ospedale, ha segnato il suo graduale ritorno alla normalità dopo le settimane in cui ha combattuto contro Covid-19.

Quando si accorge che le cose non girano per il verso giusto?

Inizio a stare male il 5 marzo: ero a cena con mia figlia. Non mi reggo in piedi, mi sento svenire. Torno subito a casa mia, a Barzago, e lì dentro mi blindo. In attesa che qualcuno venga a prendersi cura di me. Agli inizi di marzo è ancora tutto molto poco chiaro. Resto a casa otto giorni: ho la febbre, sono affaticato. Perdo completamente il gusto: sento solo quello delle arance. È anche grazie all’insistenza di mia sorella che, finalmente, la sera del 13 vengono a prendermi: la saturazione è bassa, mi attaccano l’ossigeno, mi ricoverano all’ospedale Sacra Famiglia Fatebenefratelli di Erba. Lì la situazione era caotica: come dappertutto, di Covid-19 si era appena iniziato a parlare. Devo all’intuizione di una giovane dottoressa l’avermi fatto indossare da subito il casco C-Pap, evitando così che venissi intubato. Resto lì quattro giorni e mezzo. Ossigeno a manetta, labbra spaccate, occhi fuori dalle orbite. Ma sono sempre lucido.

E poi?

All’improvviso mi dicono che mi devono lasciare andare. “E dove vado conciato così?”, ho ribattuto. Stavo per andare all’ospedale di Legnano dove presta servizio il dottor Paolo Viganò, amico di una vita: sapeva che non stavo bene e si era attivato per capire dove fossi e in quali condizioni mi trovassi. È stato un gesto di amicizia che mi ha commosso e che non saprò mai ripagare. Ma di gesti di umanità, in quelle settimane, ne ricordo tanti.

Ad esempio?

Medici, infermieri e Oss si sono dati da fare giorno e notte. Sono stato in terapia intensiva dal 18 al 31 marzo, prima di passare alla bassa intensiva. L’esito del quarto tampone, finalmente negativo, arriva il 19 aprile. Di quei giorni ricordo la mano di un’infermiera che sbuca dalla porta mostrandomi un’arancia: era l’unica cosa di cui avessi voglia e lei aveva setacciato tutti i reparti pur di trovarne una e portarmela. Allora ho girato la testa e ho pianto sotto il C-Pap. Ricordo le arance che pian piano sono arrivate da parte di tutti e il bigliettino che accompagnava un paio di cambi di biancheria di cui avevo bisogno: “Andrà tutto bene”, mi aveva scritto un’infermiera.

In quelle settimane ha mantenuto un rapporto costante con il mondo esterno anche attraverso i video e i post che ha pubblicato sui social.

Le mie cronache dalla prima linea. Sono servite a far capire alle persone cosa stava succedendo. In molti non se ne rendevano conto. Il dramma è che tanti non l’hanno ancora capito. Almeno, adesso, per fortuna, un protocollo da seguire c’è, anche per le cure a domicilio. Di sicuro, però, avrei pensato che oggi saremmo stati più avanti: non tanto per le vaccinazioni, per cui era chiaro servisse tempo, ma per avere una sorta di regolamentazione che ci permettesse di tornare almeno a sopravvivere.

Il contagio, dove?

Probabilmente il 22 febbraio, a un evento a cui ero stato invitato: eravamo in più di 150 persone e si era proprio all’indomani del caso Codogno. Tra gli ospiti, una quindicina risulteranno infetti: sei o sette in gravi condizioni. Due purtroppo sono deceduti: anche una signora più giovane di me, ne sono rimasto molto scosso.

Com’è stata la ripresa?

Il primo mese a casa è andato abbastanza bene. Ho accusato diversi acciacchi dopo: perdita di capelli, dolori articolari. Alle caviglie in particolare. Ancora adesso non riesco a camminare così bene. Ma ho deciso di rimettermi in gioco con diversi progetti: penso intanto alla trasmissione “Camera Carletto”, nata dalla voglia e dalla bellezza del raccontare, per usare i social in maniera più etica. C’è però ancora una cosa che non ho fatto, ma farò: una pubblicazione con i racconti di quei giorni. Il ricavato sarà devoluto al reparto di Infettivologia dell’ospedale di Legnano.