Coronavirus, l’intervista al “paziente 0” di Seregno: «Esperienza terribile, state a casa»

Parla il “paziente 0” di Seregno il primo residente risultato positivo al coronavirus in città: classe 1984, nel mese di marzo è stato ricoverato all’ospedale San Gerardo di Monza.
Monza, l’ospedale San Gerardo
Monza, l’ospedale San Gerardo Fabrizio Radaelli

«State a casa. Ve lo stanno raccomandando tutti ed ora mi aggiungo anch’io, che purtroppo sono passato dall’esperienza del contagio e so meglio di altri quanto siano impattanti le sue conseguenze».

Jonatha Collesei, classe 1984, è il “paziente 0” di Seregno guarito dal Coronavirus dopo una degenza di quindici giorni a marzo all’ospedale San Gerardo di Monza. Il suo caso fece parecchio scalpore in città, sia perché fu il primo ad interessare il territorio di Seregno, sia per la sua giovane età, largamente al di sotto di quella considerata fin dalle battute iniziali la fascia maggiormente a rischio.

Coronavirus, l’intervista al “paziente 0” di Seregno: «Esperienza terribile, state a casa»
Coronavirus Seregno – Jonatha Collesei

Da cosa nasce il suo appello a non uscire dalla propria abitazione?
«Penso che in tanti, anzi in troppi, non abbiano ancora compreso davvero che le immagini che la televisione mostra, per documentare ciò che sta accadendo, non sono un film. Al contrario e malauguratamente, sono invece la realtà. Per questo, dopo essermi lasciato alle spalle la parentesi bruttissima che ho vissuto, esorto tutti con forza a stare a casa».

La irrita, a buon diritto, vedere ancora molta gente per le strade?
«Ritengo che si debba avere più rispetto, per noi stessi, per chi ci è accanto, ma anche se non soprattutto per il personale medico ed infermieristico, che si sta sobbarcando sacrifici indicibili. Lo affermo senza timore di smentite, perché l’ho potuto constatare di persona, nelle due settimane di calvario che ho trascorso da ricoverato. E non è giusto che questi sacrifici, che meritano un grazie ed una riconoscenza infiniti, siano compromessi dall’incoscienza di chi, uscendo in barba ai divieti, finisce con l’ammalarsi. Oggi come oggi, anche se dispiace, la vita di sempre, quella alla quale tutti eravamo abituati, non la si può fare. Occorre invece attenersi alle regole che ci sono state dettate, a fronte di quella che, ormai, è un’emergenza sanitaria mondiale e non più solo italiana».

Come si è accorto di aver contratto il virus?
«Sabato 22 febbraio ho accusato un bruciore agli occhi ed il giorno successivo ho constatato di avere la febbre, come non mi accadeva da parecchio tempo. Sono rimasto quindi chiuso in casa poco meno di una settimana e, sabato 29 febbraio, sono stato ricoverato al San Gerardo. Lì ho toccato con mano quanto questa malattia sia terribile anche dal punto di vista morale. Il Coronavirus, oltre alle sofferenze fisiche che ti obbliga ad affrontare, tra una sensazione di soffocamento continua e varie allucinazioni, ti obbliga infatti a morire da solo. Accanto a me si è spento un uomo di 56 anni, sposato con due figli, con cui ho parlato fino a qualche ora prima del suo decesso. Purtroppo, i suoi parenti, come è prassi anche per i parenti degli altri defunti, non hanno avuto la possibilità di salutarlo prima che il suo destino si compisse. Pure per questo aspetto sottolineo come medici ed infermieri siano straordinari, perché si sobbarcano il ruolo di supplenti degli affetti personali. Sanno sempre sorriderti, nonostante il contesto: tu dal tuo letto non vedi materialmente il loro sorriso, perché indossano le mascherine, ma vedi la luce nei loro occhi, che equivale ad un sorriso».

La strada che l’ha condotta alla guarigione quanto è stata in salita?

«Non sono mai stato materialmente nel reparto di terapia intensiva, ma le cure cui sono stato sottoposto sono state del tutto simili a quelle di chi c’è stato. Le ho provate tutte, dagli occhialini alla maschera per l’ossigeno. Decisivo in positivo, per me, è stato l’utilizzo di un casco: avevo ben chiaro che, se il mio fisico non avesse reagito, con la successiva intubazione, che sarebbe stata inevitabile, sarei andato incontro al peggio. Ed è stato pesatissimo, dal punto di vista psicologico e da quello fisico. All’inizio, quando indossi questo casco, ti senti soffocare e non riesci più a muoverti dal letto. Poi l’aria viene spinta nei tuoi polmoni per cercare di riaprirli e, grazie al cielo, i miei dopo molta angoscia e molta sofferenza si sono riaperti ed hanno ripreso a funzionare. Ha pagato il fatto che sono giovane e sportivo, con un peso forma corretto, e che non ho l’abitudine di fumare o bere alcolici. Ma i giovani non pensino di essere al di fuori da ogni situazione di rischio: l’età può essere un fattore di vantaggio, ma non assicura l’immunità a prescindere. In ospedale ho conosciuto anche trentenni o quarantenni, che sono ricoverati da un mese o un mese e mezzo per il Coronavirus e che ancora non ne sono venuti a capo. E, ve lo assicuro con estrema sincerità, un mese o un mese in mezzo in quella condizione potrebbe far andare fuori di testa chiunque. Io, nella sfortuna di aver contratto la malattia, sono stato fortunato, perché la mia ripresa è stata più veloce di quanto chi mi aveva in cura avesse previsto. Ma c’è voluta da parte mia tantissima forza e tantissima pazienza, più di quelle che occorrono per rimanere nelle proprie abitazioni. Per questo, rinnovo l’invito a non uscire: per quindici giorni senza una corsetta non è mai morto nessuno…».

Il rientro a casa come lo ha affrontato?

«Ho riabbracciato i miei cari, che avevano molto sofferto e si erano molto preoccupati durante la mia lontananza, anche per alcune maldicenze di troppo che erano circolate. Qualche cattiveria l’ho vissuta in settimana, mio malgrado, anche sulla mia pelle. Un esempio? Sono andato al supermercato per fare la spesa ed una persona, dopo avermi salutato ed essersi informata sulla mia salute, si è allontanata da me per paura. Comportamenti come questo fanno male e sono immotivati. Oggi sono guarito al 100 per cento, tanto che i medici non mi hanno prescritto nemmeno un periodo di autoisolamento. Sono consapevole io per primo che non è da escludere l’eventualità che il Coronavirus possa ripresentarsi, come può presentarsi a chiunque di noi, ma da quel che ho capito il mio organismo ora avrebbe qualche opportunità più concreta per difendersi, proprio perché ci sono già passato».

Tra chi le era stato accanto prima del ricovero, qualcuno è risultato positivo?
«Assolutamente no e questo per me è stato un elemento di grandissimo conforto. L’Ats ha contattato tutte le persone che erano esposte a questo pericolo, come da mie indicazioni, ma nessuna ha avuto problemi di salute in questa fase. Non sarebbe stato un contraccolpo da poco sapere di aver inflitto ad un altro la stessa sofferenza che io ho affrontato. Almeno questo mi è stato risparmiato».